Questi fece un passo avanti e tolse la pistola dalle dita di sua figlia; era l'unico uomo in quella stanza, pensò fulmineamente McAllister, che poteva avvicinarsi a lei in quel momento con la certezza che non avrebbe sparato. Sul viso di lei si leggeva l'isterismo, e le lacrime e i singhiozzi che esplosero subito dopo dimostrarono quanto pericolosa avrebbe potuto rivelarsi la sua opposizione agli altri.
Stranamente, non aveva provato speranza neppure per un attimo. L'intera azione intorno a lui si era svolta come del tutto avulsa dalla sua vita e dai suoi pensieri. Lui era un semplice spettatore. Restò lì, immobile, per quella che gli parve un'eternità e, quando l'emozione finalmente giunse, fu la sorpresa di non essere stato spinto verso la sua fine. E con la sorpresa giunse la consapevolezza che Peter Cadron gli aveva lasciato libero il braccio, scostandosi da lui.
Gli occhi di Cadron erano calmi, la testa rigorosamente eretta, quando disse: «Sua figlia ha ragione, signore. A questo punto noi c'innalziamo al di sopra delle nostre meschine paure, e diciamo a quest'uomo sfortunato: "Abbia coraggio! Lei non sarà dimenticato. Noi non possiamo garantirle nulla, non possiamo neppure dirle esattamente ciò che le accadrà. Ma noi diciamo: se è in nostro potere aiutarla, allora lei avrà questo aiuto". E ora, noi dobbiamo proteggerla dalle devastanti pressioni psicologiche che altrimenti la distruggerebbero, semplicemente ma inesorabilmente».
Troppo tardi McAllister si avvide che tutti gli altri avevano distolto gli occhi da quella straordinaria parete, quella che aveva esibito una così grande versatilità. E non vide neppure chi schiacciò il pulsante, attivando ciò che seguì.
Vi fu un lampo abbacinante. Per un istante gli parve che la sua mente fosse stata denudata; e sullo sfondo di quell'improvvisa cecità la voce di Peter Cadron s'impresse come un marchio inestirpabile: «Lei dovrà conservare il suo autocontrollo e il suo equilibrio... questa è la sua speranza... e lei lo farà, malgrado tutto! E, per il suo bene, parli della sua esperienza soltanto agli scienziati o a quegli individui autorevoli che lei pensa possano capirla e aiutarla. Buona fortuna!»
L'effetto di quella breve ma intensa vampata durò così a lungo, che lui si accorse solo vagamente delle loro mani che tornavano ad afferrarlo e lo spingevano in avanti.
Si sentì cadere, ma non provò alcun dolore.
Si rese conto di essere disteso su un marciapiede. La voce profonda e familiare dell'ispettore Clayton tuonava sopra di lui: «State lontani, non toglietegli l'aria!»
McAllister si alzò in piedi. Una fitta parete di volti incuriositi lo stavano fissando a bocca spalancata; non c'era nessun parco e neppure quella splendida città. C'era invece una doppia fila di modesti e squallidi negozi sui due lati della strada.
Lui doveva andarsene subito da lì. Quella gente non l'avrebbe capito. In qualche punto della Terra doveva esserci uno scienziato in grado di aiutarlo. Dopotutto, i fatti stavano lì a dimostrare che lui non era esploso. Perciò da qualche parte, in qualche modo...
Borbottò fra sé delle risposte alle domande che lo assillavano, e pochi istanti dopo si trovò lontano dalla folla delusa. Seguirono minuti di un camminare senza meta, a passo sempre più rapido. Già le strade diventavano più anguste, più sporche... Si arrestò, sbalordito. Che cosa stava succedendo?
Era notte, in una città risplendente di vivide luci. E lui era in piedi, in mezzo a un viale che si stendeva come uno scintillante gioiello fino alle più remote distanze.
Una strada che, letteralmente, viveva, che fiammeggiava d'una fantastica luce che esalava dalla sua superficie... una strada di luce, come un fiume che scorresse sotto un sole inesistente, diritta, levigata e...
Continuò a percorrerla, per un tempo incalcolabile, guardando le macchine che sfrecciavano veloci... e sentì nascere in sé un'irragionevole speranza.
Era quella, nuovamente, l'era degli Isher e dei fabbricanti d'armi? Poteva esserlo: aveva l'aspetto giusto, e questo forse significava che l'avevano portato indietro. Dopotutto, non erano gente cattiva, e l'avrebbero salvato se avessero potuto. Per quanto ne sapeva, nel loro tempo potevano esser passate delle settimane, e...
All'improvviso si trovò al centro di un'accecante tempesta di neve. Barcollò alla prima, violenta, inaspettata raffica di quel vento tremendo, poi, puntando disperatamente i piedi, lottò per recuperare l'equilibrio fisico e mentale.
La meravigliosa, risplendente città era scomparsa; ed era scomparsa anche la strada luminosa... entrambe erano svanite, trasformandosi in questo mondo micidiale, selvaggio.
Scrutò attraverso la neve turbinante. Era giorno; riuscì a distinguere le vaghe ombre degli alberi che s'innalzavano attraverso la densa foschia burrascosa a una quindicina di metri da lui. Istintivamente cercò riparo sotto di essi, e finalmente riuscì a sottrarsi a quelle raffiche gelide e rabbiose.
Pensò: un minuto nel lontano futuro; il minuto successivo... dove? Lì, certo, non c'era nessuna città. Soltanto alberi, una foresta disabitata e l'inverno...
La bufera era scomparsa. E anche gli alberi. Lui si trovava su una spiaggia sabbiosa. Davanti a lui si stendeva un mare azzurro, illuminato dal sole, che s'increspava lievemente su bianchi edifici in rovina. Tutt'intorno, sparpagliati in quel basso, incantevole mare, fino alle colline coperte di erbacce, si stendevano i resti di quella città un tempo potentissima. Ogni cosa era avvolta da un'aura di incredibile antichità, e il silenzio dei suoi abitanti morti da lungo tempo era rotto soltanto dalla dolce, eterna risacca.
Di nuovo l'istantaneo cambiamento si manifestò. Anche se questa volta vi era preparato, McAllister tuttavia affondò due volte sotto la superficie d'un ampio e tumultuoso fiume che lo trascinava via con sé. Era difficile nuotare, ma quell'abito isolante galleggiava grazie all'aria che i suoi dispositivi producevano a ogni istante; dopo un po', prese a contrastare energicamente la corrente, nuotando con decisione verso la riva alberata, una trentina di metri sulla destra.
Ma un attimo dopo cessò di nuotare. Gli era venuto un pensiero: «A che cosa serve?»
La verità era semplice e tremenda: lui era proiettato dal passato al futuro; era il «peso» sull'estremità lunga dell'asta, e in qualche modo stava scivolando, ogni volta, sempre più avanti e sempre più indietro nel tempo. Soltanto questo poteva spiegare i mutamenti catastrofici di cui era già stato testimone. Nel giro di un minuto sarebbe sopraggiunto un altro cambiamento, e...
Arrivò! Ora lui giaceva a faccia in giù in mezzo all'erba, ma si sentiva svuotato, privo di curiosità. Neppure sollevò lo sguardo, ma giacque inerte, un'ora dopo l'altra, mentre l'altalena continuava a oscillare: passato... futuro... passato... futuro...
Al di là di ogni dubbio i fabbricanti d'armi si erano guadagnati il rinvio dell'attacco, poiché all'altra estremità di quell'altalenare si trovava la grande macchina usata dai soldati di Isher come forza attivante: anch'essa andava su e giù nel tempo, in questa folle oscillazione.
Rimaneva la promessa dei fabbricanti d'armi di aiutarlo, ma adesso vana, poiché essi non potevano sapere ciò che era accaduto. Essi non avrebbero più potuto trovarlo, in quel labirinto del tempo.
Rimanevano le leggi meccaniche, in base alle quali le forze dovevano equilibrarsi. Da qualche parte, chissà quando, un equilibrio sarebbe stato raggiunto, probabilmente nel futuro, poiché restava sempre il fatto che lui non era esploso nel passato. Sì, da qualche parte si sarebbe prodotto l'equilibrio, e lui si sarebbe trovato ad affrontare quel problema. Ma adesso...
L'altalena continuò ad oscillare, ad oscillare, ad oscillare... Il mondo a un'estremità diventava sempre più giovane e luminoso, e all'altra sprofondava nel buio d'una incalcolabile vecchiezza.
L'infinito si spalancò, nero, davanti a lui.
All'improvviso, si rese conto di sapere dove l'altalena si sarebbe fermata. Sarebbe finita proprio nel passato più remoto, più estremamente lontano, con la liberazione di quella fantastica energia temporale che lui aveva accumulato in ognuna di quelle mostruose oscillazioni.
E lui non sarebbe stato testimone della formazione dei pianeti, ma ne sarebbe stato la causa.
Armageddon
Armageddon
di Fredric Brown
Unknown, agosto
Fredric Brown era uno dei più dotati professionisti in tutta la storia della fantascienza. Oltre ad essere un giallista assai noto fu uno dei vincitori del Premio Edgar del Mistery Writers of America), nel campo della science-fiction Brown è ricordato soprattutto per i suoi racconti brevissimi, ma produsse opere eccellenti di ogni lunghezza. Il suo romanzo What Mad Universe (in edizione rilegata, 1949) rimane una delle migliori satire nel campo della science-fiction... e in gran parte è efficace ancora oggi! Vi sono state troppe storie sulla fine del mondo, questo è il raro esempio di un racconto sulla quasi fine del mondo, narrato come soltanto Brown poteva fare, con una penna intinta nell'acido più corrosivo.
(Sono convinto che Fred Brown sia il maestro riconosciuto delle storie brevissime. Quando Marty ed io, insieme a Joe Olander, abbiamo pubblicato la nostra recente antologia One Hundred S.F. Short Stories, non vi abbiamo fatto figurare nessuna delle storie di Fred Brown per il semplice motivo che non siamo riusciti a ottenere il permesso per pubblicarne nessuna. — Era quella la ragione, non è vero, Marty? — In ogni caso, più di un recensore ha storto il naso davanti a questa omissione, convinto che ciò indicasse la nostra mancanza di buon gusto, e io non ho potuto fare a meno di rendermi conto che questa era, appunto, l'impressione suscitata. - I.A.)
Accadde, fra tutti i posti possibili, a Cincinnati. Non che ci sia qualcosa che non va, a Cincinnati, salvo il fatto che non è il centro dell'universo, e neppure dello stato dell'Ohio. È una vecchia, simpatica città e, a modo suo, non è seconda a nessun'altra. Ma perfino la sua Camera di Commercio sarebbe costretta ad ammettere che le manca un significato cosmico. Doveva essere stata una pura coincidenza che Gerber il Grande — che razza di nome — desse spettacolo a Cincinnati quando le cose, in qualche modo, andarono storte.
Naturalmente, se l'episodio fosse stato divulgato, Cincinnati sarebbe oggi la città più famosa del mondo e il piccolo Herbie sarebbe acclamato come un moderno San Giorgio e riceverebbe più applausi di un ragazzo prodigio. Ma nessuno, fra gli spettatori che si trovavano al Theatre Bijou, ricorda anche un solo particolare. E del resto, neppure il piccolo Herbie Westerman, anche se ha la pistola ad acqua da esibire come prova.
Lui non pensava affatto alla pistola che aveva in tasca, mentre se ne stava seduto, gli occhi fissi sul prestigiatore lassù, oltre le luci della ribalta. Era una pistola ad acqua nuova di zecca, comperata mentre stava venendo a teatro (aveva indotto i suoi genitori a fare una puntatina nei negozietti di Vine Street). Ma adesso, Herbie era molto più interessato a ciò che accadeva sul palcoscenico.
Il suo volto esibiva un'incondizionata approvazione. Il giochetto delle carte da gioco che scomparivano e riapparivano tra il palmo e il dorso della mano non era un mistero per Herbie. Sapeva farlo anche lui. Certo, lui era ancora costretto a servirsi delle carte mignon che si trovavano nell'armamentario della sua scatola magica, ed erano proprio della misura giusta per le sue mani di ragazzino di nove anni. Ed era pur vero che tutti riuscivano a cogliere le carte mentre svolazzavano, non abbastanza veloci, dal palmo al dorso quando girava la mano. Ma questo era un particolare senza importanza.
Lui sapeva, tuttavia, che far passare dal palmo al dorso della mano sette carte in una volta richiedeva una gran forza nelle dita, oltre che destrezza, e questo era appunto ciò che Gerber il Grande stava facendo. Non c'era alcuna esitazione né il più piccolo indizio che tradisse lo spostamento, e Herbie annuiva la sua approvazione. Poi, ricordò ciò che sarebbe venuto dopo.
Diede di gomito alla madre, e disse: «Mamma, chiedi a papà se ha un fazzoletto di riserva».
Con la coda dell'occhio, Herbie vide sua madre che voltava la testa, e in minor tempo di quanto sarebbe stato necessario a dire «ah», fu fuori dalla sua poltroncina, lanciato di corsa giù per la corsia. Si congratulò con se stesso per lo splendido inganno e il perfetto sincronismo.
Era a questo punto dello spettacolo — Herbie lo aveva già visto prima, da solo — che Gerber il Grande chiedeva se qualche ragazzino fra il pubblico non volesse salire sul palcoscenico. E, appunto, ora lo chiese.
Herbie Westerman era partito in anticipo. Era già in pieno movimento prima che il mago facesse la domanda. Nel corso dello spettacolo precedente era arrivato soltanto decimo ai gradini che conducevano dalla corsia al palcoscenico. Questa volta era stato pronto, e non aveva voluto correre nessun rischio, neppure quello di un impedimento da parte dei suoi genitori. Forse sua madre l'avrebbe lasciato andare, e forse no; era stato saggio garantirsi che stesse guardando dall'altra parte. Non ci si poteva fidare dei genitori in cose del genere. A volte avevano strane idee.
«... vuole per favore salire sul palcoscenico?» E il piede di Herbie toccò il primo dei gradini che salivano al palcoscenico in esatta coincidenza col punto interrogativo che concludeva quella frase. Sentì il trepestio deluso degli altri piedi dietro di lui, e sorrise soddisfatto mentre continuava a salire, attraversando poi le luci della ribalta.
Si trattava del trucco dei tre piccioni, Herbie lo sapeva dallo spettacolo precedente, il quale richiedeva un assistente scelto fra il pubblico. Praticamente, era l'unico trucco che lui non era riuscito a spiegarsi. Sapeva che doveva esserci uno scompartimento nascosto da qualche parte in quella scatola, ma lui non aveva ancora capito dove mai si trovasse. Ma questa volta sarebbe stato lui stesso a tenere in mano la scatola. Se trovandosi addirittura a contatto con essa non fosse riuscito a scoprire il trucco, allora avrebbe fatto meglio a riprendere in mano la sua collezione di francobolli.
Sorrise, sicuro di sé, al mago. Non che lui, Herbie, si sarebbe mai sognato di tradirlo. Anche lui era un mago, e capiva che c'era una massoneria tra i maghi, e che uno di essi non rivelava mai i trucchi di un altro.
Tuttavia, il suo entusiasmo svanì un po' e il sorriso si cancellò dal suo viso quando fissò gli occhi del mago. Visto da vicino, Gerber il Grande pareva assai più vecchio di quanto gli fosse sembrato dall'altro lato della ribalta. E in qualche modo diverso. Più alto, tanto per cominciare.
Ad ogni modo, ecco che stava arrivando la scatola col trucco dei colombi. Il normale assistente di Gerber la stava portando sopra un vassoio. Gli occhi del mago si distolsero da Herbie, il quale si sentì meglio, e ricordò infine il motivo per cui era salito lì sopra. L'assistente zoppicava. Herbie chinò la testa cercando d'intravedere il lato inferiore del vassoio, nel caso vi fosse qualcosa. Non c'era niente.
Gerber prese su la scatola. L'assistente si allontanò zoppicando e Herbie lo seguì sospettosamente con lo sguardo. Quello zoppicare era genuino o era un modo per distogliere l'attenzione?
La scatola si aprì del tutto, appiattendosi come la proverbiale frittella. Tutti e quattro i suoi lati erano incernierati col fondo, e il coperchio era incernierato con uno dei lati. Ognuna delle facce snodate poteva esser fissata con dei piccoli ganci di ottone.
Herbie arretrò di un passo così da poter vedere la scatola da dietro, mentre il davanti veniva esibito al pubblico. Sì, ora lo vide. Uno scomparto triangolare aderente al coperchio, rivestito esternamente da specchi con gli angoli esattamente calcolati per garantirne l'invisibilità. Roba vecchia. Herbie si sentì un po' deluso.
Il prestigiatore tirò su i lati della scatola, rimontandola in modo che lo scomparto nascosto dagli specchi si trovasse all'interno. E accennò a voltarsi verso Herbie: «E adesso, mio bel giovanotto...»
Ciò che accadde nel Tibet non fu l'unica causa: fu soltanto l'ultimo anello di una catena.
Il tempo era stato insolito, quella settimana nel Tibet, assai insolito. Aveva fatto caldo. E poiché, in precedenza, era caduta molta più neve di quanta avrebbe dovuto, se n'era fusa una quantità mai vista a ricordo d'uomo. I torrenti in piena si precipitavano giù veloci.
Lungo le rive dei torrenti, alcune ruote di preghiera giravano veloci come non mai. Altre, sommerse dall'acqua, si arrestarono del tutto. I preti, immersi fino alle ginocchia nell'acqua fredda, si affaccendavano febbrilmente, spostando le ruote più vicino alla riva, dove ancora una volta i torrenti impetuosi riprendevano a farle girare.
C'era una piccola ruota, molto antica, che aveva girato senza soste per più tempo di quanto gli uomini sapessero. Era stata lì talmente a lungo che nessun lama vivente ricordava quale preghiera fosse stata incisa su di essa, e quale fosse stato lo scopo di quella preghiera.
L'acqua tumultuosa l'aveva quasi sommersa per metà quando il lama Klarath allungò la mano verso di essa per spostarla più in là, al sicuro. Troppo tardi. Il suo piede scivolò nel fango viscido, e mentre cadeva il dorso della sua mano colpì la ruota. Non più trattenuta, la ruota fu trascinata via, roteando nei vortici, ruzzolando sul fondo del torrente, in acque sempre più profonde.
Mentre rotolava tutto andò bene.
Il lama si rialzò, rabbrividendo per quell'involontario tuffo nell'acqua gelida, e andò a portare in salvo altre ruote turbinanti. Che cosa mai poteva importare, pensò, una piccola ruota? Lui non sapeva — ora che gli altri anelli erano stati spezzati — che soltanto quella piccola ruota si interponeva fra la Terra e l'Armageddon.
La ruota della preghiera di Wangur Ul continuò a rotolare, a rotolare, fino a quando, un miglio più in basso, urtò contro una sporgenza e si fermò. Quello fu il momento.
«E adesso, mio bel giovanotto...»
Herbie Westerman — adesso siamo di nuovo a Cincinnati — alzò gli occhi, chiedendosi perché mai il prestigiatore si fosse fermato a metà frase. E vide il volto di Gerber il Grande contorto, come in preda a uno shock. Senza muoversi, senza cambiare, il suo volto cambiò. Senza parere diverso, esso fu diverso.
Il mago cominciò a ridacchiare tra sé. E da questa sommessa risata traspariva tutto il male del mondo. Nessuno che l'avesse sentita poteva più aver dubbi su chi egli fosse. Nessuno lo dubitò. Il pubblico, ogni singolo spettatore, seppe in quell'attimo orrendo chi era lassù, davanti a loro. Lo seppe anche il più scettico fra loro, al di là di ogni dubbio.
Nessuno si mosse, nessuno parlò, nessuno sospirò rabbrividendo. Vi sono cose ben al di là della paura. Soltanto l'incertezza provoca la paura, e in quel momento il Theatre Bijou era colmo d'una spaventosa certezza.
La risata crebbe d'intensità, e si riverberò fin negli angoli più lontani e polverosi della galleria. Niente, neppure una mosca sul soffitto, si mosse.
Satana parlò:
«Vi ringrazio per la cortese attenzione che avete voluto riservare a un povero mago». Ironicamente, fece un profondo inchino. «Lo spettacolo è finito».
Poi sorrise: «Tutti gli spettacoli sono finiti».
In qualche modo il teatro parve oscurarsi, malgrado le luci elettriche ardessero ancora. Nel mortale silenzio sembrò passare un fruscio d'ali, d'ali coriacee, anche se invisibili. Strane cose si andavano ammassando.
Sul palcoscenico vi era una fioca radiosità rossastra. Dalla testa e dalle spalle del mago sprizzarono minuscole, vivide fiamme.
E altre fiamme sprizzarono lungo il proscenio e fra le luci della ribalta. Una brillò sul coperchio della scatola che il piccolo Herbie Westerman reggeva ancora fra le mani.
Herbie lasciò cadere la scatola.
Avevo accennato che Herbie Westermann era un boy-scout? Fu puramente una reazione automatica. Un ragazzo di nove anni non sa molto di faccende come l'Armageddon, ma Herbie Westerman avrebbe dovuto sapere che l'acqua non avrebbe mai spento quel fuoco.
Ma, come ho detto, fu una reazione puramente automatica; così cacciò fuori la sua nuova pistola ad acqua e spruzzò la scatola truccata.
E il fuoco scomparve proprio nell'istante in cui uno schizzo di quell'acqua rimbalzava inzuppando i calzoni di Gerber il Grande, che gli girava le spalle.
Echeggiò un breve sibilo. Le luci riacquistarono la primitiva intensità, anche tutte le altre fiamme si spensero, il fruscio d'ali svanì, mentre tornavano a udirsi i rumori del pubblico.
Gli occhi del prestigiatore erano chiusi. La sua voce suonò stranamente tesa quando disse: «Mi rimane almeno un potere. Nessuno di voi ricorderà niente di tutto questo».
Poi, lentamente, si voltò e raccolse dal pavimento la scatola e tornò a porgerla a Herbie Westerman: «Devi fare più attenzione, ragazzo», disse, «adesso reggila così».
Vi batté sopra un colpetto con la sua bacchetta. Lo sportellino si aprì. Tre candidi colombi volarono fuori dalla scatola. Il fruscio delle loro ali non era coriaceo.
Il padre di Herbie Westerman scese le scale e, con aria decisa, strappò la coramella dal gancio al quale era appesa, sulla parete della cucina.
La signora Westerman sollevò lo sguardo dalla minestra che stava cuocendo sulla cucina economica. «Ma perché, Henry?» chiese. «Hai davvero intenzione di punirlo con quella... soltanto perché ha schizzato un po' d'acqua fuori dal finestrino dell'auto, mentre tornavamo a casa?»
Suo marito scosse, truce, la testa. «Non per questo, Marge. Non ricordi che gli abbiamo comperato la pistola ad acqua quando siamo andati in centro e, dopo, non è mai stato vicino a un rubinetto? Dove pensi che l'abbia riempita?»
Non attese la risposta: «Quando ci siamo fermati in cattedrale, per parlare con padre Ryan della sua cresima, è stato allora che quel malandrino l'ha riempita. Dal fonte battesimale. Ha usato l'acqua santa per la sua pistola ad acqua!»
Risalì con passo deciso le scale, brandendo la coramella.
Colpi ritmici e gemiti di dolore aleggiarono un attimo dopo giù per le scale. Herbie... che aveva salvato il mondo, stava ricevendo la sua ricompensa.
Adamo e niente Eva
Adam and No Eve
di Alfred Bester
Astounding Science Fiction, settembre
Alfred Bester si è decisamente imposto dopo la seconda guerra mondiale con racconti quali The Man Who Murdered Mohammed, Time is the Traitor, e gli eccellenti romanzi The Demolished Man (in «Galaxy», 1952) e The Stars My Destination (1956), entrambi considerati i migliori della moderna science-fiction. Bester ha conosciuto una carriera quanto mai varia, entrando e uscendo dal campo della science-fiction mentra lavorava per i fumetti, la televisione e la rivista «Holiday». Sagace analizzatore della science-fiction, è stato uno dei migliori critici che abbiamo avuto, in «The Magazìne of Fantasy and Science Fiction», dal 1960 al 1962. Alfred Bester è stalo uno scrittore della «new wave» molto prima che questo termine venisse di moda.
Adam and No Eve (Adamo e niente Eva) rimane una delle sue migliori storie, e uno dei racconti più riusciti fra i primi che comparvero sullo «spazio interiore».
(Incontrai Alfred Bester molto tempo dopo che questa storia fu scritta... e, buon Dio, quanto mi colpì! Citerò anche la formula; quando l'incontrai, scoprii all'istante che Alfred poteva essere classificato nel gruppo di quegli scrittori che «hanno la stessa personalità delle cose che scrivono». Altri di questo tipo sono Sprague de Camp e Lester del Rey. Naturalmente, c'è un altro gruppo di scrittori che «non hanno la stessa personalità delle storie che scrivono», come Fredric Brown e Theodore Sturgeon. Ovviamente, mi rendo conto che ogni classificazione è soggettiva, e che altre persone raggrupperebbero scrittori diversi nelle due sezioni. A proposito, io non so a quale gruppo appartengono. - I.A.)
Crane sapeva che quella doveva essere la costa. L'istinto glielo diceva, ma più che l'istinto, glielo dicevano i pochi frammenti di conoscenza che si tenevano aggrappati al suo cervello sconvolto e febbricitante, le stelle che erano apparse nella notte attraverso i rari squarci delle nubi e la sua bussola che puntava ancora un ago tremante verso nord. Quella era la cosa più strana di tutte, pensò Crane. Malgrado dovunque regnasse il caos, la Terra aveva conservato i suoi poli.
Non c'era più una costa, non c'era più alcun mare. Soltanto la linea appena accennata di quella che era stata una scogliera si stendeva a nord e a sud per interminabili miglia. Una linea di grigie ceneri. Le stesse ceneri e scorie che si stendevano dietro di lui; le stesse ceneri grigie che si stendevano davanti a lui. Il limo sottile, impalpabile, che lo faceva sprofondare fino al ginocchio, sollevandosi turbinando a ogni movimento, soffocandolo. Ceneri che si addensavano in nuvole possenti, correndo per il cielo quando soffiava il vento impazzito. Ceneri che s'impastavano in un fango vischioso quando scrosciavano le frequenti piogge.
Sopra la sua testa il cielo era color ebano. Le nubi nere correvano alte ed erano perforate qua e là da lame di luce solare che sciabolavano rapide sopra la Terra. Là dove la luce batteva sopra una tempesta di cenere, si creava una danza di particelle scintillanti. Là dove attraversava la pioggia, nascevano mille arcobaleni. Cadeva la pioggia; soffiavano tempeste di ceneri; lame di luce penetravano fino al suolo... tutto ciò insieme, o contemporaneamente, un continuo incastro di violenza, bianco e nero. Così era stato per mesi. Così era sopra ogni singolo chilometro quadrato dell'intera Terra.
Crane oltrepassò l'orlo della scogliera calcinata e cominciò a scivolar giù lungo un pendio uniforme che un tempo era stato il letto dell'oceano.
Aveva viaggiato tanto a lungo che era incapace, ormai, di provar dolore. Si fece forza coi gomiti e trascinò il suo corpo in avanti. Poi portò il ginocchio destro sotto di sé e spinse di nuovo in avanti i gomiti. Ginocchio, gomiti, ginocchio, gomiti... aveva dimenticato che cosa significava camminare.
La vita, pensò, stordito, è meravigliosa. Si adatta ad ogni cosa. Se uno deve strisciare, striscia. Si formano i calli sui gomiti e sulle ginocchia. Collo e spalle s'irrobustiscono. Le narici imparano a soffiar via le ceneri prima d'inspirare. La gamba malata si gonfia e comincia a suppurare. S'intorpidisce, ben presto marcirà e si staccherà.
«Scusi», fece Crane, «non ho capito cosa...»
Alzò gli occhi scrutando l'alta figura davanti a sé e cercò di afferrare le sue parole. Era Hallmyer. Indossava il suo camice da laboratorio, macchiato, e i suoi capelli grigi erano scompigliati. Hallmyer stava ritto senza fatica sopra le ceneri e Crane si chiese come fosse possibile vedere le nubi di polvere turbinante attraverso il suo corpo.
«Ti piace il tuo mondo, Stephen?» chiese Hallmyer.
Crane scosse miserevolmente la testa.
«Non è molto bello, eh?» disse ancora Hallmyer. «Guàrdati attorno. Polvere, non c'è altro che polvere e ceneri. Striscia, Stephen, striscia. Non troverai nulla, soltanto polvere e ceneri...»
Hallmyer tirò fuori dal nulla un bicchier d'acqua, limpida e fredda. Crane vide il sottile strato di rugiada condensato sul vetro, e sentì la sua bocca riarsa come se all'improvviso fosse rivestita di granelli di sabbia.
«Hallmyer!» gridò. Cercò di alzarsi in piedi e di afferrare il bicchiere colmo d'acqua, ma la fitta di dolore alla gamba lo ammonì. Si ritrasse, rannicchiandosi su se stesso.
Hallmyer sorseggiò l'acqua del bicchiere, poi gliela sputò in faccia. L'acqua era calda.
«Continua a strisciare», disse Hallmyer, amaro, «continua a strisciare intorno alla superficie della Terra. Non troverai altro che polvere e ceneri...»
Vuotò il bicchiere al suolo davanti a Crane. «Continua a strisciare. Per quante miglia? Calcolatele da solo. Pi erre al quadrato. Il raggio è di ottomila o giù di lì...»
Era scomparso, camice e bicchiere. Crane si rese conto che aveva ricominciato a piovere. Premette il viso contro il caldo fango di ceneri inzuppato d'acqua, aprì la bocca e cercò di succhiare l'umidità. Gemette, e poco dopo riprese a strisciare.
L'istinto lo spingeva a continuare. Doveva arrivare da qualche parte. Sapeva che questo era in qualche modo associato col mare, col bordo del mare. Sulla... sulla riva del mare qualcosa lo aspettava. Qualcosa che gli avrebbe consentito di capire tutto ciò. Doveva arrivare al mare... vale a dire, se esisteva ancora un mare.
La pioggia scrosciante gli martellava la schiena, Crane fece una sosta e si tirò lo zaino sul fianco, dove avrebbe potuto frugarci dentro con una mano. Sapeva che là dentro vi erano giusto tre cose: una pistola, una tavoletta di cioccolato e un barattolo di pesche. Tutto quello che gli rimaneva della riserva di due mesi. La cioccolata si era ridotta a una poltiglia guasta. Crane sapeva che avrebbe fatto meglio a mangiarla prima che tutto il valore nutritivo scomparisse. Ma, ancora un altro giorno, e non avrebbe più avuto forza sufficiente ad aprire il barattolo. Lo tirò fuori e l'aggredì con l'apriscatole. Quando finalmente riuscì a forzare la latta e a tirarne via un lembo, la pioggia era cessata.
Mentre masticava la frutta e sorseggiava il succo, osservò il muro di pioggia che si allontanava da lui scendendo il pendio fino al fondo dell'oceano. Torrenti d'acqua stavano sprizzando fuori dal fango. Piccoli canali venivano scavati... canali che un giorno sarebbero stati i nuovi fiumi. Un giorno che lui non avrebbe mai visto. Un giorno che nessuna creatura vivente avrebbe mai visto.
Mentre gettava via il barattolo vuoto, Crane pensò: l'ultima creatura viva sulla Terra ha mangiato il suo ultimo pasto. Il metabolismo recita il suo ultimo atto.
Il vento sarebbe seguito alla pioggia. Nelle interminabili settimane durante le quali aveva strisciato, aveva imparato questo. Il vento sarebbe giunto fra pochi minuti e l'avrebbe sferzato con le sue nubi di ceneri e pomice. Riprese a strisciare in avanti, esplorando con gli occhi confusi quella grigia distesa piatta, alla ricerca di un riparo.
Evelyn gli batté sulla spalla.
Crane seppe che era lei ancora prima di girare la testa. Ella era in piedi accanto a lui, fresca e allegra nel suo abito dai vivaci colori, ma il suo viso adorabile era contorto dalla paura.
«Stephen», lei gridò, «devi affrettarti!»
Lui poté soltanto contemplare, affascinato, i suoi lisci capelli color del miele che le ricadevano fino alle spalle.
«Oh, caro!» lei disse ancora, «sei ferito!» Le sue mani delicate gli sfiorarono in una rapida carezza le gambe e la schiena. Crane annui.
«Mi è accaduto qualcosa quando ho toccato terra», spiegò, «non ero abituato al paracadute. Avevo sempre creduto che si scendesse lentamente... al più come cadere dal letto. Ma il suolo grigio si è precipitato verso di me come un pugno... e Umber si stava agitando fra le mie braccia. Non potevo lasciarlo cadere, vero?»
«Naturalmente, mio caro...» fece Evelyn.
«Così l'ho tenuto stretto e ho cercato di mettere le gambe sotto di me», continuò Crane. «Ma poi, qualcosa mi ha fracassato una gamba e il fianco...» Indugiò, chiedendosi quanto lei sapesse di ciò che era veramente accaduto. Non voleva spaventarla.
«Evelyn, tesoro...» lui disse, cercando di sollevare le braccia.
«No, caro», lei lo fermò, guardando spaventata dietro di sé, «devi affrettarti. Devi stare attento alle tue spalle!»
«Le tempeste di cenere?» Crane fece una smorfia. «Ne ho già affrontate altre».
«No, non le tempeste!» gridò Evelyn. «Qualcos'altro. Oh, Stephen...»
Poi scomparve, ma Crane sapeva che aveva detto la verità. C'era qualcosa dietro di lui, qualcosa che lo aveva seguito durante tutte quelle settimane. Lontano, nei recessi della sua mente, lui aveva avvertito la minaccia. Stava rinchiudendosi su di lui come un sudario. Scosse la testa. In qualche modo, ciò era impossibile. Lui era l'ultima creatura vivente sulla Terra. Come avrebbe potuto esserci una minaccia?
Il vento ruggì dietro di lui, e un istante più tardi arrivarono le pesanti nuvolaglie di scorie e ceneri che lo sferzarono, mordendogli la pelle. Con gli occhi appannati, vide come essiccavano il fango, creando su di esso una sottile crosta asciutta. Crane si raggomitolò sulle ginocchia e si coprì la testa con le braccia. Con lo zaino come cuscino, si preparò ad aspettare la fine della tempesta. Sarebbe passata con la stessa rapidità della pioggia.
La tempesta gli suscitò un grande disorientamento nella testa malata. Come un bambino, lui tuffò le mani tra i suoi ricordi, cercando di far combaciare i vari frammenti. Perché mai Hallmyer era così amaro con lui? Poteva essersi trattato di quella discussione, forse?
Quale discussione?
Diamine, la discussione... prima che tutto ciò accadesse.
Ah, quella!
All'improvviso, i pezzi combaciarono.
Crane era in piedi, accanto alla sua nave dallo snello profilo, e la guardava con occhi pieni d'una sconfinata ammirazione. Il tetto del capannone era stato tolto, e il muso della nave era stato sollevato, cosicché essa, sostenuta dall'ingabbiatura, ora puntava direttamente verso il cielo. Un operaio stava lustrando meticolosamente le superfici interne degli ugelli dei razzi.
I suoni soffocati di una discussione giunsero dall'interno della nave, seguiti da un pesante sferragliare. Crane salì di corsa la breve scaletta metallica fino al portello e cacciò dentro la testa. A pochi metri da lui, due uomini stavano fissando al loro posto i lunghi serbatoi di soluzione ferrosa.
«Andateci piano», gridò Crane, «volete fare saltare la nave?»
Uno dei due alzò lo sguardo e sogghignò. Crane sapeva ciò che stava pensando. Che la nave sarebbe andata in pezzi. Tutti lo dicevano. Tutti, salvo Evelyn. Lei aveva fede in lui. Neanche Hallmyer l'aveva mai detto. Ma Hallmyer pensava che lui fosse pazzo per altri motivi. Mentre scendeva la scaletta, Crane vide Hallmyer entrare nel capannone col camice che sbatteva al vento.
«Parla del diavolo!» borbottò Crane.
Hallmyer cominciò a urlare non appena vide Crane: «Adesso ascolta...»
«Oh, non di nuovo», fece Crane.
Hallmyer tirò fuori di tasca un foglio di carta e lo sventolò sotto il naso di Crane.
«Sono stato su quasi tutta la notte», strillò, «ripassando ogni cosa da cima a fondo. Ti dico che ho ragione. Ho assolutamente ragione...»
Crane guardò le file e file di equazioni e poi gli occhi iniettati di sangue di Hallmyer. Quell'uomo era mezzo impazzito per la paura.
«Per l'ultima volta», proseguì Hallmyer. «Tu vuoi usare il tuo nuovo catalizzatore sulla soluzione di sali ferrosi. D'accordo, ti concedo che è una scoperta miracolosa. Te ne do credito».
Miracolosa era forse la parola giusta per definirla. Crane lo sapeva, senza false presunzioni, che lui era incappato in quella scoperta per caso. Bisognava inciampare su un catalizzatore capace d'indurre la disintegrazione nucleare nel ferro, liberando dieci miliardi di joule d'energia per ogni grammo di combustibile. Nessun uomo era intelligente al punto da elaborare tutto questo col puro ragionamento.
«Tu non credi che ce la farò?» chiese Crane.
«Fino alla Luna? Intorno alla Luna? Forse. Hai cinquanta probabilità su cento di riuscirci». Hallmyer si passò le dita fra i capelli lisci. «Ma per l'amor del cielo, Stephen, non sono preoccupato per te. Se vuoi ammazzarti, quelli sono affari tuoi. È per la Terra che mi preoccupo...»
«Stupidaggini. Vai a casa e dormici sopra».
«Senti...» Hallmyer indicò i fogli di carta con mano tremante, «non importa come tu elabori il sistema di alimentazione e di mescolamento, tu non otterrai mai un'efficienza del cento per cento nella reazione e nella scarica».
«È questo che fa sì che vi sia soltanto il cinquanta per cento di probabilità», disse Crane. «E già lo sapevamo. Perciò, c'è qualcos'altro che ti turba. Che cosa?»
«Il catalizzatore che sfuggirà dagli ugelli dei razzi. Ti rendi conto di quello che causerà, se una sola goccia colpirà la Terra? Darà inizio a una reazione a catena che disintegrerà il ferro su tutta la superficie del globo. Raggiungerà ogni atomo di ferro... e c'è ferro dappertutto. Non ci sarà più nessuna Terra...»
«Ascolta», replicò Crane stancamente, «abbiamo già discusso altre volte di tutto questo».
Poi condusse Hallmyer alla base dell'incastellatura del razzo. Sotto l'intelaiatura di ferro c'era un pozzo profondo sessanta metri, largo quindici, e rivestito di mattoni refrattari.
«Questo è per la fase iniziale di propulsione. Se una frazione per quanto piccola del catalizzatore dovesse passare, resterà intrappolata in questo pozzo e di essa si occuperanno le reazioni secondarie. Soddisfatto, adesso?»
«Ma mentre sarai in volo, tu metterai in pericolo la Terra fino a quando non avrai superato il limite di Roche. Ogni singola goccia di catalizzatore non utilizzato finirà per arrivare al suolo, e...»
«Per l'ultimissima volta», esclamò Crane, risoluto, «la fiamma della scarica del razzo si prenderà cura di ciò. Avvilupperà qualunque particella che dovesse sfuggire e la distruggerà. Adesso vai fuori, ho del lavoro da fare».
Mentre veniva spinto verso la porta, Hallmyer urlò e agitò le braccia: «Troverò il modo di fermarti. Non te lo lascerò fare...»
Lavoro? No, era pura intossicazione, questo darsi da fare intorno alla nave. Pura gioia personale. Essa aveva la bellezza delle cose ben fatte. La bellezza di un'armatura ben lucidata, dell'impugnatura di una spada ben bilanciata, di un paio di pistole gemelle cesellate. Non c'era alcun pensiero di pericolo, e ancor meno di morte, nella mente di Crane, mentre si ripuliva le mani con uno straccio, dopo aver completato quegli ultimi tocchi.
L'astronave si teneva eretta nella sua ingabbiatura, pronta a trapassare i cieli. Quindici metri di snello acciaio, le teste dei bulloni che luccicavano come gioielli. Per una lunghezza di sei metri la nave ospitava l'apparato di propulsione, con il dispositivo per l'erogazione graduata del catalizzatore. La maggior parte dello scompartimento di prua ospitava la speciale cuccetta a molle che Crane aveva progettato per assorbire lo shock iniziale dell'accelerazione. Il muso della nave era un blocco compatto di quarzo naturale che guardava all'insù come un occhio ciclopico.
Crane pensò: «Essa morirà dopo questo viaggio. Tornerà alla Terra e si fracasserà in una tonante vampata di fuoco, poiché non esiste ancora alcun modo per progettare un atterraggio sicuro per una nave a razzo. Ma ne vale la pena. Perché avrà avuto il suo unico, grande volo, e questo è tutto ciò che ciascuno di noi vorrebbe avere. Un grande, bellissimo volo nell'ignoto...»
Mentre chiudeva a chiave la porta del laboratorio, Crane sentì Hallmyer che gridava dal cottage sul lato opposto del campo. Attraverso l'oscurità crescente della sera, riuscì a vederlo che gesticolava freneticamente. Allora attraversò di corsa la distesa d'erba tagliata corta, inalando profondamente l'aria frizzante, grato di essere vivo.
«C'è Evelyn al telefono», l'informò Hallmyer.
Crane lo fissò. Hallmyer si stava comportando in maniera strana. Evitò ostentatamente il suo sguardo.
«Che cos'è questa storia?» chiese Crane. «Mi pareva che fossimo rimasti d'accordo che non doveva chiamare... che non avrebbe dovuto mettersi in contatto con me fino a quando non fossi stato pronto a partire. Le hai forse messo delle idee in testa? È questo il modo con cui speri di fermarmi?»
Hallmyer disse: «No...» e si mise a fissare l'orizzonte color indaco cupo.
Crane entrò nel suo studio e prese su il ricevitore.
«Adesso ascoltami, tesoro», cominciò senza preamboli, «non c'è ragione di allarmarsi proprio adesso. Ti ho spiegato ogni cosa in tutti i particolari. Prima che la nave si schianti, mi butterò col paracadute e scenderò fluttuando, felice come una Pasqua. Ti amo moltissimo, e ti rivedrò mercoledì quando partirò. Ciao...»
«Ciao, tesoro», esclamò lei in risposta, con la sua voce squillante, «ed è soltanto per questo che mi hai chiamato?»
«Chiamato... io?»
Una massa bruna si staccò dal tappeto davanti al caminetto e si rizzò sulle robuste zampe. Umber, il grande danese di Crane, annusò l'aria e alzò un orecchio. Poi uggiolò.
«Hai detto che sono stato io a chiamarti?» urlò Crane.
Improvvisamente dalla gola di Umber uscì un latrato. Con un solo balzo raggiunse Crane, lo guardò in viso, uggiolò e ruggì tutto insieme.
«Chiudi il becco, mostro!» disse Crane, spingendo via Umber col piede.
«Dài a Umber un calcio da parte mia», esclamò Evelyn, ridendo. «Sì, caro. Qualcuno ha chiamato e ha detto che volevi parlarmi».
«Hanno fatto questo, eh? Senti, tesoro, ti richiamo...»
Crane riattaccò. Si alzò, perplesso, e osservò l'inquieto comportamento di Umber. Attraverso le finestre gli ultimi barlumi del tramonto proiettavano tremolanti bagliori arancione. Umber fissò le luci, annusò l'aria e latrò un'altra volta. Colpito da un'idea improvvisa, Crane balzò verso la finestra.
Dall'altro lato del campo una densa muraglia di fiamme s'innalzava nell'aria, e all'interno di essa s'intravedevano le pareti del laboratorio che stavano crollando una dopo l'altra. Sullo sfondo dell'incendio comparvero le sagome d'una dozzina di uomini, lanciati in una folle corsa.
«Santo cielo!» gridò Crane.
Balzò fuori dal cottage e con Umber alle calcagna si lanciò verso il capannone. Mentre correva, riuscì a distinguere lo snello profilo della nave spaziale all'interno del vortice d'aria rovente. Lo scafo appariva ancora freddo e indenne. Se soltanto fosse riuscito a raggiungerla prima che le fiamme ammorbidissero il suo metallo e allentassero i bulloni...
Gli operai gli corsero incontro, sporchi d'unto e ansimanti. Crane li guardò a bocca aperta, con un misto di collera e di sbalordimento.
«Hallmyer!» gridò, «Hallmyer!»
Hallmyer si fece largo tra la gente. I suoi occhi erano stravolti ma brillavano della luce del trionfo.
«Tanto peggio», disse. «Mi spiace, Stephen...»
«Porco!» urlò Crane. «Vigliacco bavoso che non sei altro!»
Agguantò Hallmyer per il bavero e gli diede un violento scrollone. Poi lo lasciò cadere e si lanciò di corsa verso il capannone.
Hallmyer urlò qualcosa e un istante più tardi un corpo si scagliò contro i suoi polpacci e lo fece ruzzolare al suolo. Hallmyer si rialzò barcollando, vibrando i pugni. Umber era al suo fianco, vibrando sopra il ruggito delle fiamme. Crane fracassò il viso di un uomo, e lo vide barcollare all'indietro, finendo addosso a un altro. Poi alzò il ginocchio di scatto e con un colpo brutale mandò accartocciato per terra il terzo inseguitore. Poi abbassò la testa e si tuffò tra le fiamme.
Sulle prime, neppure sentì le bruciature, ma quando raggiunse la scaletta metallica e cominciò a salire verso il portello, urlò per il dolore delle ustioni. Umber ululava ai piedi della scaletta, e Crane si rese conto che il cane non sarebbe mai riuscito a sfuggire alle vampe dei razzi. Si curvò, afferrò Umber e lo tirò dentro la nave.
Crane vacillava, quando chiuse il portello ermetico. Riuscì a conservare la sua conoscenza quel tanto che gli bastò a sistemarsi sulla cuccetta antiaccelerazione. Poi fu soltanto l'istinto che spinse le sue mani verso il quadro di comando. L'istinto, e il disperato desiderio d'impedire che la sua bella nave fosse ingoiata dalle fiamme. Avrebbe fallito... Sì, ma avrebbe fallito tentando.
Le sue dita azionarono gli interruttori. La nave vibrò e ruggì. E l'oscurità calò su di lui.
Per quanto tempo restò privo di sensi? Non aveva alcun modo di saperlo. Crane si svegliò percependo una gelida pressione contro la nuca e la schiena, e un uggiolio terrorizzato nelle orecchie. Crane guardò su e vide Umber intrappolato fra le molle e le cinghie della cuccetta. Il suo primo impulso fu di scoppiare a ridere; poi, all'improvviso, si rese conto di aver guardato sul Aveva guardato su, verso la cuccetta.
Si accorse di giacere, arrotolato su se stesso, nella cavità interna della grande coppa di quarzo massiccio che costituiva il muso della nave. La quale era salita in alto — forse fino al limite di Roche, al confine della forza gravitazionale della Terra — ma poi, senza mani sui comandi che la guidassero nella continuazione del volo, aveva ruotato su se stessa ricadendo verso il pianeta. Crane scrutò attraverso il cristallo e rantolò.
Sotto di lui vi era il globo della Terra. Le sue dimensioni apparenti erano il triplo di quelle della Luna. E non era più la sua Terra. Era il globo di fuoco chiazzato di nubi nere. Nell'area corrispondente al polo Nord vi era una minuscola macchia bianca, ma proprio mentre Crane guardava, essa fu improvvisamente coperta da nuvolaglie brune, scarlatte e cremisi. Hallmyer aveva avuto ragione.
Per ore e ore giacque pietrificato, lì nel muso di prua, mentre la nave scendeva, osservando il lento dissiparsi delle fiamme che lasciavano posto a una densa coltre nera che avvolgeva completamente la Terra. Giacque lì, intorpidito dall'orrore, incapace di capire... incapace d'immaginare i miliardi d'esseri umani distrutti, un bel pianeta verde ridotto in ceneri e scorie. La sua famiglia, la sua casa, i suoi amici, tutto quello che gli era stato caro e vicino al cuore... scomparso! Non riuscì a pensare a Evelyn.
Il sibilo dell'aria, fuori dello scafo, ridestò in lui qualche vaga facoltà mentale. I pochi brandelli di ragione che gli erano rimasti gli dissero che la cosa migliore per lui sarebbe stata quella di precipitare a picco con la sua nave, dimenticando ogni cosa nel boato dello schianto e della disintegrazione, ma l'istinto di conservazione lo costrinse a sollevarsi in piedi, ad arrampicarsi fino al ripostiglio e a prepararsi per l'atterraggio. Un paracadute, un piccolo serbatoio d'ossigeno e uno zaino carico di provviste. Solo per metà cosciente di quanto stava facendo, si vestì per la discesa, si affibbiò il paracadute e aprì il portello. Umber uggiolò pateticamente, Crane prese il grosso cane tra le braccia e si lanciò nel vuoto.
Ma il vuoto, là fuori, non era mai stato pieno come adesso. A una simile quota prima sarebbe stato difficile respirare a causa della rarefazione dell'aria. Adesso era quasi impossibile a causa del pulviscolo asciutto e impalpabile che l'ingolfava. Ogni respiro significava riempirsi i polmoni di ceneri, scorie, vetro polverizzato...
Il quadro dei ricordi tornò a frantumarsi. All'improvviso, si ritrovò al presente... un presente nero, denso, che l'avviluppava in una stretta morbida e soffocante, togliendogli il respiro. Crane lottò in preda a un panico folle, poi si accasciò esausto.
Era già accaduto altre volte. Molto tempo prima, all'interrompersi dei ricordi si era trovato sepolto sotto un profondo strato di polvere. Giorni... o settimane... o mesi prima. Crane, aggrappandosi con le unghie ai più piccoli appigli, riuscì a farsi strada attraverso la montagnola di ceneri che il vento gli aveva ammucchiato addosso. E riemerse alla luce. Il vento era cessato. Era giunto il momento di riprendere a strisciare verso il mare.
Le vivide immagini dei suoi ricordi finirono di sparpagliarsi davanti al lugubre panorama che si stendeva di fronte a lui. Crane si accigliò. Ricordava troppo, e troppo spesso. Aveva la vaga speranza che se fosse riuscito a ricordare con sufficiente intensità, sarebbe riuscito a cambiare una delle cose che aveva fatto — almeno una, una cosa anche piccola — e poi, tutto questo sarebbe diventato irreale. Pensò: sarebbe di grande aiuto se tutti ricordassero ed esprimessero un desiderio contemporaneamente... ma non c'erano più i «tutti». Io sono solo. Io sono l'ultimo ricordo della Terra. Io sono l'ultimo frammento di vita.
Strisciò. Gomiti, ginocchia, gomiti, ginocchia... e poi Hallmyer prese a strisciargli accanto, trasformando tutto ciò in un gioco. Rideva e si tuffava nelle ceneri come una foca, sprizzando felicità.
Crane disse: «Ma perché dobbiamo andare fino al mare?»
Hallmyer sbuffò, sollevando uno spruzzo di ceneri.
«Chiedilo a lei», rispose, indicando l'altro lato di Crane.
Evelyn era lì, che strisciava con caparbia determinazione, mimando con estrema serietà ogni più piccolo gesto di Crane.
«È a causa della nostra casa», spiegò lei, «non ricordi la nostra casa, tesoro? In alto sul dirupo? Saremmo vissuti lì per sempre, respirando l'ozono e facendo delle belle nuotate ogni mattina. Ero lì, quando tu sei partito. Adesso, stai tornando alla casa sul bordo del mare. Il tuo meraviglioso volo è finito, caro, e tu stai tornando da me. Vivremo insieme, noi due soli, come Adamo ed Eva...»
Crane disse: «È bello».
Poi Evelyn girò la testa e urlò: «Oh, Stephen, stai attento!» E Crane sentì di nuovo la minaccia chiudersi su di lui. Sempre strisciando, guardò dietro di sé le sconfinate pianure di cenere e non vide nulla. Quando tornò a voltarsi verso Evelyn, vide soltanto la propria ombra, nera e dai bordi netti. Poco dopo anche l'ombra svanì, quando la lama di luce solare passò oltre.
Ma la paura rimase. Evelyn l'aveva avvertito due volte, e aveva sempre avuto ragione. Crane si fermò, e si voltò per guardar meglio.
Se lui era davvero seguito, avrebbe visto, così, chi lo stava braccando.
Vi fu un doloroso momento di lucidità. Penetrò attraverso la sua febbre e il suo disorientamento portando con sé l'affilata spietatezza di un coltello.
Sto impazzendo, pensò. La cancrena della mia gamba si è estesa al cervello. Non c'è nessuna Evelyn, nessun Hallmyer, nessuna minaccia. Su tutto questo pianeta non c'è nessuna vita, salvo la mia, perfino i fantasmi e gli spiriti d'oltretomba devono essere periti nell'inferno che ha avvolto la Terra. No, non c'è nulla, salvo io stesso e il mio male. Sto morendo, e quando morirò, sarà morto tutto. Resterà soltanto una massa di ceneri senza vita.
Colse un movimento.
Di nuovo l'istinto. Crane fu pronto ad abbassare la testa e a fingersi morto. Ma continuò a guardare le pianure di cenere attraverso gli occhi socchiusi, chiedendosi se la morte incombente non stesse facendo scherzi alla sua vista. Un altro muro compatto di pioggia stava per investirlo. Crane sperò di riuscire a distinguere qualcosa prima che la sua vista fosse cancellata...
Sì. Laggiù.
Un quarto di miglio più indietro una grande forma grigia stava correndo sulla superficie grigia. Malgrado il martellare della pioggia ancora lontana, Crane udì il fruscio delle polveri calpestate e vide le nuvolette alzarsi. Furtivamente, rovistò nello zaino cercando la pistola, mentre la sua mente tentava debolmente di elaborare una spiegazione e si ritraeva davanti alla paura.
La cosa si avvicinò, e improvvisamente Crane strizzò gli occhi e capì. Ricordò Umber che, scalciando per la paura, era balzato via da lui quando il paracadute li aveva fatti atterrare sulla superficie incenerita della Terra.
«Diamine, è Umber», mormorò. Si sollevò in piedi. Il cane si fermò. «Qui, ragazzo!» gracchiò allegramente Crane, «qui, ragazzo!»
Era sopraffatto dalla gioia. Si rese conto di quanto miserabile fosse la solitudine che aveva gravato su di lui, un'orrenda sensazione di unicità nella desolazione. Adesso la sua non era l'unica vita esistente. Ce n'era un'altra. Una vita amichevole che poteva offrire amore, affetto. La speranza si riaccese in lui.
«Qui, ragazzo», ripeté, «vieni, ragazzo...»
Dopo un po', smise di far schioccare le dita. Il grande danese si teneva lontano, mostrando i denti e tenendo la lingua penzoloni. Il cane era magro al punto da sembrare uno scheletro, i suoi occhi luccicavano rossi e cattivi nell'oscurità. Quando Crane ancora una volta lo chiamò, il cane ringhiò. Sbuffi di cenere si levarono da sotto le sue narici.
È affamato, pensò Crane, per questo è così. Infilò la mano nello zaino e a quel gesto il cane ringhiò di nuovo. Crane tirò fuori la tavoletta di cioccolato e laboriosamente la liberò dalla carta e dalla stagnola, poi, con la sua debole forza, la lanciò verso Umber. La tavoletta cadde molto lontano dal cane. Dopo un minuto di tempestosa incertezza, il cane lentamente venne avanti e ingollò il cibo. Le ceneri gli incipriarono il muso. Poi si mise a leccarsi i baffi, a lungo, e continuò ad avanzare verso Crane.
Questi si sentì cogliere da un improvviso accesso di paura. Una voce insisteva a dirgli: Questo non è un amico. Non ha alcun amore né sente alcuna amicizia verso di te. L'amore e l'amicizia sono scomparsi dalla Terra insieme alla vita. Adesso non è rimasto nulla, soltanto la fame.
«No...» bisbigliò Crane, «non è giusto. Noi siamo l'ultima vita sulla Terra. Non è giusto che dobbiamo sbranarci a vicenda, cercando di divorarci...»
Ma Umber continuava ad avanzare, obliquamente, con fare furtivo, e i suoi denti luccicavano, bianchi e aguzzi. E proprio mentre Crane lo fissava, il cane ringhiò e si scagliò contro di lui.
Crane cacciò con forza una mano sotto il muso del cane, ma l'impeto dell'animale lo spinse con violenza all'indietro. Urlò per il dolore quando la sua gamba rotta, gonfia, fu investita dal peso di Umber. Con la mano destra libera egli colpì con forza, ripetutamente, avvertendo appena i denti che gli stritolavano il braccio sinistro. Poi il suo corpo premette su qualcosa di metallico, e lui si rese conto di esser finito sopra il revolver che aveva lasciato cadere.
Lo cercò a tentoni, e pregò che le ceneri non avessero intasato il meccanismo di sparo. Quando Umber lasciò andare il suo braccio e cercò di azzannarlo alla gola, Crane sollevò la pistola e piantò la canna, alla cieca, contro il corpo del cane. E premette più volte il grilletto, finché i rombi degli spari non si spensero in distanza e si udirono soltanto dei ticchettii a vuoto.
Un denso liquido scarlatto macchiava il grigio.
Evelyn e Hallmyer abbassarono tristemente lo sguardo sull'animale abbattuto. Evelyn stava piangendo, e Hallmyer si passò le dita nervose tra i capelli, ripetendo il vecchio gesto abitudinario.
«Questa è la fine, Stephen», disse, «hai ucciso una parte di te stesso. Oh... tu continuerai a vivere, ma non nella tua completezza. Farai meglio a seppellire qui il cadavere, Stephen. É il cadavere della tua anima».
«Non posso», replicò Crane, «il vento soffierà via le ceneri».
«Allora brucialo...»
Gli parve che essi lo aiutassero a sfilarsi lo zaino e a infilarlo sotto il cane. Lo aiutarono anche a sfilarsi i vestiti e ad ammucchiarli insieme allo zaino. E fecero coppa intorno ai fiammiferi, fino a quando il tessuto non prese fuoco, e soffiarono sulla debole fiamma fino a quando non s'innalzò crepitando e non prese decisamente ad ardere. Crane restò rannicchiato accanto al fuoco e lo attizzò fino a quando non rimase nulla, se non dell'altra cenere grigia. Poi le voltò le spalle e una volta ancora prese a strisciare giù, sull'antico letto dell'oceano. Adesso era nudo. Non c'era più nulla di ciò che era stato, salvo la sua piccola, tremula vita.
Era troppo afflitto dal dolore per accorgersi della furibonda pioggia che lo schiaffeggiava e lo sferzava, o dei lancinanti dolori che gli trafiggevano la gamba annerita fino all'anca. Strisciava. Gomiti, ginocchia, gomiti, ginocchia, legnosamente, meccanicamente, apatico nei confronti di tutto. Del cielo chiuso sopra la sua testa, delle pianure desolate, e perfino dell'opaco bagliore dell'acqua che s'intravedeva laggiù, molto più lontana.
Crane sapeva che si trattava del mare... quel poco che era rimasto del vecchio, oppure un nuovo mare che si andava formando. Ma sarebbe stato un mare vuoto, senza vita, il quale avrebbe lambito sponde asciutte e senza vita. Quello sarebbe stato un pianeta di roccia e di pietra, di metallo, di neve e ghiaccio, e d'acqua, ma questo sarebbe stato tutto. Non più vita. Lui, da solo, era inutile. Lui era Adamo, ma non c'era Eva.
Evelyn lo salutò allegramente dalla sponda, agitando la mano. Era in piedi accanto al candido cottage, il vento che agitava il suo abito mostrando le linee snelle e innocenti della sua figura. E quando lui giunse un po' più vicino, lei gli corse incontro e lo aiutò. Evelyn non disse nulla, si limitò a infilargli le mani sotto le ascelle aiutandolo a tener sollevato il peso del suo corpo torturato dall'intenso dolore. Così, alla fine, lui raggiunse il mare.
Era vero, quel mare. Al di là di ogni dubbio. Poiché, anche dopo che Evelyn e il cottage furono scomparsi, sentì l'acqua bagnargli, fresca, il viso. Acque tranquille... Calme...
Ecco il mare, pensò Crane, ed io... eccomi qui. Adamo, e niente Eva. Non c'è speranza.
Giacque col volto rivolto al cielo, scrutando l'alto cielo tempestoso, e l'amarezza dentro di lui crebbe.
«Non è giusto!» urlò. «Non è giusto che tutto questo debba scomparire. La vita è troppo bella perché debba perire a causa dell'atto folle di un'unica, folle creatura...»
Placidamente, le acque lo lavarono. Placidamente... senza fretta... Il mare lo cullò dolcemente, e perfino l'angoscia che gli stringeva il cuore era una mano avvolta in un morbido guanto. Improvvisamente il cielo si aprì — per la prima volta durante tutti quei mesi — e Crane fissò sopra di sé le stelle.
Allora seppe. Questa non era la fine della vita. La vita non avrebbe mai potuto finire... All'interno del suo corpo, all'interno dei suoi tessuti che imputridivano cullati dolcemente dal mare c'era la fonte di dieci milioni di milioni di vite. Cellule, tessuti, batteri, amebe... Innumerevoli infinità di vite che avrebbero piantato nuove radici nelle acque e sarebbero vissute molto tempo dopo che lui se n'era andato.
Essi sarebbero vissuti dei suoi resti imputriditi. Si sarebbero nutriti gli uni degli altri. Si sarebbero adattati al nuovo ambiente, nutrendosi dei minerali e dei sedimenti portati dalle piogge dentro a questo nuovo mare. Sarebbero cresciuti, avrebbero germogliato, si sarebbero evoluti. La vita si sarebbe nuovamente estesa anche sopra le terre emerse. E sarebbe nuovamente iniziato il vecchio ciclo già altre volte ripetuto, che forse aveva avuto inizio dal corpo putrido dell'ultimo sopravvissuto di un qualche viaggio interstellare. Sarebbe accaduto di nuovo e di nuovo, in epoche future.
E poi seppe che cosa l'aveva ricondotto al mare. Non c'era bisogno di nessun Adamo... né di alcuna Eva. Soltanto il mare, la grande madre della vita, era necessario. Il mare lo aveva richiamato alle sue profondità, cosicché, poi, la vita potesse emergere ancora una volta dalle sue acque, e lui ne fu contento.
Placidamente le acque lo cullarono. Placida... calma... la madre della vita cullava l'ultimo nato dell'ultimo ciclo che sarebbe divenuto il primo nato del nuovo ciclo. Con occhi ormai vitrei, Stephen Crane sorrise alle stelle, stelle che erano sparse uniformemente nel cielo. Stelle che non avevano ancora formato le familiari costellazioni, e non l'avrebbero fatto per altri cento milioni di secoli.
Plesso solare
Solar Plexus
di James Blish
Astonishing Stories, settembre
Il defunto James Blish diede parecchi ragguardevoli contributi alla science-fiction. Come scrittore, il suo romanzo A Case of Conscience (1958) rimane uno dei più affascinanti e provocatori esempi della religione nella sf. La sua serie degli Okie (riunita in Cities in Flight, 1969) è stato un contributo di grande originalità al classico tema della «cerca», mentre le sue storie della Pantropy erano resoconti, tutti eccellenti, di mutamenti biologici umani e più-che-umani.
Come recensore e saggista, Blish fu tra i pionieri delle voci critiche all'interno del genere, e le sue due raccolte, The Issue at Hand e More Issues at Hand (entrambe pubblicate con lo pseudonimo di William Atheling, Jr.) sono perspicaci e piene d'intuizioni. E infine James Blish fu uno dei curatori più dotati di creatività; l'unico numero di Vanguard Science Fiction prodotto sotto la sua direzione è uno dei pezzi più ricercati dai collezionisti di fantascienza, mentre New Dream this Morning (1966) è ancora la suprema antologia rappresentativa delle arti nella sf.
Solar Plexus (Plesso solare) è una delle sue prime storie, e la migliore tra le prime discussioni su quello che un cyborg poteva essere, e quello che poteva essere il suo effetto sulla componente umana.
(Jim Blish era uno dei più affettuosi, tra gli scrittori di science-fiction. Per la verità, esiste una fotografia — che Jay Kay Klein mostra ad ogni più piccola occasione — in cui Blish mi scocca un grosso bacio proprio sopra la guancia. Devo ammettere, tuttavia, che il mio affetto per lui ricevette una scossa quando scoprii che Blish era William Atheling, Jr. I critici non mi piacciono particolarmente, e Atheling non era stato sempre gentile con me. Tuttavia, riuscii a conservare la mia obiettività e decisi che avrei perdonato a quel sorcio di Atheling per amore di Jim. - I.A.)
Brant Kittinger non sentì squillare l'allarme. Veramente, fu soltanto quando un colpo ovattato ebbe scosso il suo osservatorio in caduta libera che egli sollevò lo sguardo dall'interferometro, improvvisamente conscio dell'accaduto. Poi, lo squillo della campana d'allarme penetrò nella sua consapevolezza.
Brant era un astronomo, non uno spaziale, ma sapeva che la campana poteva significare soltanto l'arrivo di un'altra nave nelle vicinanze. La campana non avrebbe suonato per un meteorite — che avrebbe trapassato l'osservatorio, tornando a perdersi nell'infinito, senza neppure dare tempo all'allarme di attivarsi — e soltanto una nave nelle vicinanze avrebbe potuto far scattare i sensori. Anzi, nelle immediate vicinanze.
Un secondo colpo ammortizzato gli disse appunto quant'era vicina. Il raschiare che seguì, quando l'altro vascello scivolò lungo il fianco del suo, scacciò definitivamente dal suo cervello le nebbie dell'alta matematica. Lasciò cadere la matita e si raddrizzò.
Il primo pensiero fu che il suo anno in orbita intorno al nuovo pianeta transplutoniano fosse finito, e che il rimorchiatore dell'Istituto fosse arrivato per trainarlo a casa, col telescopio e tutto. Un'occhiata all'orologio a tutta prima lo rassicurò, poi lo lasciò ancora più perplesso. Doveva passare ancora quattro mesi lassù.
Naturalmente nessun vascello mercantile avrebbe potuto spingersi così lontano dai pianeti interni. E gli incrociatori della polizia delle Nazioni Unite non si allontanavano tanto dalle linee commerciali. Inoltre, sarebbe stato impossibile per chiunque scoprire l'osservatorio orbitale di Brant per caso.
Brant si sistemò meglio gli occhiali sul naso, e scivolò goffamente, rinculando, fuori dalla camera del fuoco principale, e poi giù, lungo la rete alla parete, fino al banco dei controlli al livello inferiore. Una rapida occhiata al quadro dei comandi rivelò che c'era un campo magnetico d'una certa intensità, là vicino, un campo che non apparteneva all'invisibile gigante gassoso che ruotava a mezzo milione di miglia di distanza. La nave sconosciuta si era rinserrata a lui magneticamente; era una nave di vecchio modello, allora, poiché quella tecnica d'ormeggio era stata scartata già da alcuni anni, poiché era troppo brusca per strumenti tanto delicati. E l'intensità del campo significava una nave molto grossa.
Troppo grossa. L'unica nave di quell'epoca che potesse montare generatori di quel tipo, da quanto Brant poteva ricordare, era l'Astrid, della Fondazione Cibernetica. Brant ricordava bene il rammaricato annuncio della Fondazione secondo il quale Murray Bennett aveva distrutto se stesso e l'Astrid piuttosto che consegnare la nave a qualche squadra d'ispezione delle Nazioni Unite. Era accaduto soltanto otto anni prima. Soltanto uno scandalo in più...
Ma allora, chi poteva essere?
Accese la radio. Non ne uscì nulla. Era un semplice apparecchio a transistor, regolato sulla frequenza dell'Istituto, e poiché la nave là fuori non apparteneva all'Istituto, lui si era aspettato quel silenzio.
Naturalmente egli aveva anche un fotofono, ma era stato concepito per comunicazioni a distanza, non per sussurri guancia a guancia. Soprappensiero, disinnescò infine la campana dell'allarme. Subito un altro suono giunse alle sue orecchie: un lieve, ritmico battito sullo scafo dell'osservatorio. Qualcuno voleva entrare.
Brant non riuscì a pensare a nessuna ragione per rifiutare l'accesso, salvo per un vago e del tutto irragionevole interrogarsi se l'estraneo fosse o no un amico. Lui non aveva nemici, e l'idea che qualche fuorilegge fosse interessato al suo osservatorio era ridicola. Malgrado ciò, c'era qualcosa d'inquietante in quella nave anonima, là fuori, appena oltre le sue paratie.
Il lieve battito cessò. Ma ricominciò quasi subito, a un ritmo meccanico, insistente. Per un attimo Brant si chiese se avrebbe dovuto o no cercare di staccarsi servendosi dei pochi razzi di manovra dell'osservatorio, ma anche se fosse riuscito a vincere una lotta così ineguale, avrebbe scagliato l'osservatorio fuori dalla sua orbita dove l'Istituto si aspettava di trovarlo, e lui non era abbastanza esperto come astronauta per farvelo ritornare di nuovo.
Tap, tap. Tap, tap.
«E va bene», disse, irritato. Pigiò il pulsante che mise in funzione la camera di equilibrio. Il battito cessò. Lasciò il portello esterno aperto per un tempo più che sufficiente perché chiunque potesse entrarvi, poi schiacciò l'altro pulsante che invertiva il procedimento: ma non accadde nulla.
Dopo quella che gli parve una lunga attesa, schiacciò nuovamente il pulsante. Stavolta, il portello esterno si chiuse, le pompe riempirono d'aria la camera, il portello interno si spalancò. Ma non ne uscì aleggiando nessun fantasma; non c'era assolutamente nessuno, nella camera di equilibrio.
Tap, tap. Tap, tap.
Con fare distratto, si pulì gli occhiali sulla manica. Se quelli non volevano entrare nell'osservatorio, allora stavano aspettando che uscisse lui. Era senz'altro possibile: malgrado il telescopio avesse una messa a fuoco Coudé che gli consentiva di lavorare, per la maggior parte del tempo, nell'atmosfera della nave, di tanto in tanto era necessario che lui svuotasse la cupola, e a questo scopo disponeva di una tuta spaziale. Ma non si era mai avventurato, indossandola, fuori dello scafo, e l'idea di farlo adesso lo allarmava. Brant non era affatto uno spaziale.
Dannazione a loro. Si ricacciò gli occhiali alla sommità del naso e diede un'altra occhiata alla camera di equilibrio vuota. Era più che mai vuota, ma il portello esterno adesso si stava aprendo molto lentamente...
Uno spaziale avrebbe saputo di essere già morto, ma le reazioni di Brant non furono altrettanto rapide. La sua prima mossa fu quella di tentare di chiudere il portello interno, bloccandolo con la pura forza dei muscoli, ma questo non ne volle sapere. Allora si aggrappò al più vicino sostegno, aspettando che l'aria irrompesse fuori dell'osservatorio, e la sua vita con essa.
Il portello esterno della camera di equilibrio continuò ad aprirsi, imperturbabile, e continuò a non esserci nessun precipitarsi fuori dell'aria... soltanto il lieve, inafferrabile esalare d'un odore, come se l'aria di Brant si stesse mescolando con quella di qualcun altro. Quando tutti e due i portelli della camera di equilibrio furono completamente spalancati, l'uno di fronte all'altro, Brant si trovò a guardare dentro un tubo flessibile a tenuta stagna, come quelli che aveva visto un tempo usati per trasferire piccoli carichi da una nave a una delle molte stazioni spaziali della Terra. Esso collegava la camera di equilibrio dell'osservatorio con quella della nave. All'altra estremità del tubo brillavano gialle, con l'inequivocabile, tetro splendore dei filamenti incandescenti, delle lampade.
Quella era una vecchia nave, non c'era dubbio.
Tap. Tap.
«Vai all'inferno», esclamò. S'incamminò dentro il tubo, che si fletté, sinuoso, seguendo l'avanzare del suo corpo attraverso quell'aria nuovamente immobile. Giunto davanti alla camera di equilibrio della nave sconosciuta, indugiò, guardandosi le spalle. Non fu molto sorpreso, quando vide il portello esterno della camera d'equilibrio dell'osservatorio chiudersi lentamente. Poi la camera d'equilibrio della nave si ridestò, e lui con un balzo scivolò oltre la stretta fessura che si era aperta.
Davanti a lui si apriva uno spoglio corridoio metallico. Mentre stava guardando, la prima lampadina, sopra di lui, ammiccò e si spense. Poi toccò alla seconda. Quindi alla terza. Quando la quarta si spense, la prima si riaccese, cosicché adesso c'era una chiazza d'ombra ben definita che si allontanava lentamente da lui lungo il corridoio. Era ovvio che in questo modo gli veniva chiesto di avanzare lungo il corridoio, seguendo le lampadine che via via si spegnevano.
Non aveva altra scelta, adesso che era arrivato a quel punto. Seguì le luci ammiccanti.
La pista conduceva direttamente alla cabina di comando della nave. Ma anche lì non c'era nessuno.
Tutto, lì, era oppressivamente silenzioso. Lui riusciva a sentire il sommesso ronzio dei generatori — un rumore più intenso, però, di quanto ne avesse mai udito a bordo dell'osservatorio — ma nessuna nave avrebbe dovuto essere così silenziosa. Avrebbero dovuto udirsi voci umane, per quanto smorzate, il cicalare dei sistemi di comunicazione, i tonfi delle suole di metallo. Qualcuno avrebbe dovuto far funzionare l'intera nave, non soltanto le camere d'equilibrio, ma i motori... e i computer. L'osservatorio era soltanto una chiatta spaziale, e non aveva bisogno di nessun equipaggio, salvo Brant, ma una vera nave doveva esser fatta funzionare.
Brant ispezionò quello scomparto di nudo metallo, valutando l'età apparente dell'equipaggiamento. La maggior parte dei comandi erano manuali, ma non c'erano mani per azionarli.
Una nave fantasma, nel vero senso della parola.
«D'accordo», disse lui, e la sua voce echeggiò intensa in quel vuoto, «uscite fuori. Mi volevate qui... perché vi nascondete, adesso?»
Subito, si udì un suono in quell'aria chiusa, immobile, un sottile sospiro elettrico. Poi una voce piatta chiese: «Lei è Brant Kittinger?»
«Certamente», disse Brant, girandosi inutilmente alla ricerca della fonte della voce. «Lei sa chi sono. Non può avermi trovato per caso. Vuole venire fuori? Non ho tempo per i giochetti».
«Non sto giocando», replicò, calma, la voce, «e non posso venir fuori, dal momento che non mi sto nascondendo. Io non posso vederla; dovevo sentire la sua voce prima di poter avere la certezza che fosse lei».
«Perché?»
«Perché non posso vedere all'interno dello scafo. Ho potuto trovare il suo osservatorio orbitale con relativa facilità, ma fino a quando non l'ho sentita parlare non potevo esser sicuro che a bordo ci fosse lei. Adesso lo so».
«Va bene», fece Brant, sospettoso, «ma non riesco ancora a capire perché si nasconda. Dove si trova?»
«Proprio qui», disse la voce, «tutt'attorno a lei».
Brant guardò da ogni parte intorno a sé. Cominciò a sentire un brivido alla base del cranio.
«Che razza di sciocchezza è questa?» esclamò.
«Lei non vede ciò che sta guardando, Brant. Perché lei mi guarda, non importa da che parte rivolga gli occhi. Io sono la nave».
«Oh», mormorò Brant, «allora è così. Lei è una delle navi di Bennett guidata dal computer. Per caso, lei è l'Astrid, nonostante tutto?»
«Questa è l'Astrid», disse la voce, «ma lei non ha capito ciò che intendo. Io sono anche Murray Bennett».
Brant restò a bocca spalancata: «Ma dov'è... dove si trova?» chiese, dopo un po'.
«Qui», insisté la voce con impazienza, «io sono l'Astrid. E sono anche Murray Bennett. Bennett è morto, perciò non può entrare in cabina comando e stringerle la mano. Adesso io sono Murray Bennett; mi ricordo assai bene di lei, Brant. Ho bisogno del suo aiuto, perciò l'ho cercata. Non sono tanto Murray Bennett quanto vorrei essere».
Brant si lasciò cadere sul sedile del pilota.
«Lei è un computer», esclamò, scosso. «Non è così?»
«Lo è, e non lo è. Nessun computer può riprodurre alla perfezione il funzionamento d'un cervello umano. Io ho cercato d'introdurre degli autentici meccanismi neurali umani nei computer, specificamente per pilotare le astronavi, e sono stato dichiarato fuorilegge per questo. Credo di essere stato trattato ingiustamente. È stata necessaria un'incredibile abilità chirurgica per realizzare le centinaia di collegamenti sinaptici indispensabili... e prima ancora che avessi compiuto metà del mio lavoro, le Nazioni Unite decisero che quanto stavo facendo era una vivisezione umana. Mi dichiararono fuorilegge, e là Fondazione decretò che dovevo autodistruggermi. Che cosa potevo fare? Mi autodistrussi. Trasferii la maggior parte del mio sistema nervoso dentro i computer della Astrid, servendomi di assistenti drogati sotto controllo telepatico, e affidandomi ai computer, nella fase finale, per saldare le ultime connessioni. Mai prima di allora era esistita una simile chirurgia, e fui io a crearla. Funzionò. Adesso io sono l'Astrid, e anche Murray Bennett... anche se Bennett è morto».
Brant strinse le mani, con cautela, sul bordo del quadro dei comandi. «E ciò, a che cosa le è servito?» chiese.
«Ha dimostrato che avevo ragione. Io stavo tentando di costruire una nave quasi vivente. Ho dovuto integrarvi parte di me stesso per riuscirci... dal momento che mi avevano dichiarato fuorilegge per impedirmi di usare un qualsiasi altro essere umano per procurarmi le parti che mi occorrevano. Ma qui, c'è l'Astrid, quasi viva... almeno quanto potevo esistere. Io sono immune, per così dire, a una nave spaziale "morta" — un incrociatore delle Nazioni Unite, ad esempio — come lei potrebbe esserlo a una carriola infuriata. I miei riflessi sono veloci quanto quelli umani. Percepisco le cose direttamente, non attraverso strumenti. Faccio volare me stesso: sono colui che cercavo di essere... la nave che pensa quasi da sola».
«Continua a dire "quasi"», osservò Brant.
«È per questo che sono venuto da lei», proseguì la voce. «Non ho abbastanza di Murray Bennett, qui con me, per sapere ciò che devo fare come passo successivo. Lei mi conosceva bene. Stavo forse tentando di usare sempre più i cervelli umani e sempre meno i meccanismi dei computer? Mi sembra che stessi tentando di far proprio questo. Posso procurarmi i cervelli con facilità, proprio come mi sono procurato lei. Il sistema solare è pieno d'individui isolati a bordo di navi-osservatorio, che potrebbero essere prelevati da esse e incorporati in macchine efficienti come l'Astrid. Ma... non so. Sembra che io abbia perduto la mia creatività. Ho una base dove dispongo di altre navi con perfezionatissimi computer a bordo, e disponendo di qualche persona da usare come cavie potrei fare di esse delle navi ancora migliori della Astrid. Ma è questo che voglio fare? È questo che mi ero proposto di fare? Non lo so più, Brant. Mi consigli lei».
Quella macchina dal cervello umano sarebbe stata commovente se non fosse stata così tremendamente uguale a ciò che era Bennett. La combinazione dei due era quanto di più orribile...
Brant si riscosse: «Lei ha dato una ben misera prova delle sue capacità di pensare, Bennett», dichiarò. «Mi ha lasciato penetrare nel suo cervello senza pensare al pericolo cui si esponeva. Che cosa m'impedisce, adesso, di piazzarmi ai suoi comandi manuali e di pilotarla fino alla più vicina stazione delle Nazioni Unite?»
«Lei non sa pilotare una nave».
«Come fa a saperlo?»
«Una semplice valutazione. Comunque, le difese non mi mancano certo. Che cosa può impedirmi di far sì che lei si tagli la gola da solo? La risposta è la stessa. Lei ha il controllo del suo corpo, io ho il controllo del mio. Il mio corpo è l'Astrid. I comandi sono inutili, a meno che io non li attivi. I nervi attraverso i quali io posso attivarli sono foderati di eccellente acciaio. L'unico modo in cui lei potrebbe interrompere i miei comandi sarebbe quello di distruggere qualcosa di essenziale al funzionamento della nave. Questo, in un certo senso, significherebbe uccidermi, così come distruggere il suo cuore o i suoi polmoni significherebbe uccidere lei. Ma questo sarebbe inutile, poiché allora lei non potrebbe pilotare la nave più di quanto potrei pilotarla io. E se lei riparasse il guasto, la nave verrebbe... be', resuscitata».
La voce zittì per un attimo. Poi aggiunse, in tono sbrigativo: «Comunque, sono in grado di difendermi».
Brant non rispose. Aveva socchiuso gli occhi, riducendoli a due sottili fessure, come quando si dedicava a qualche difficile problema, come ad esempio la trasformazione di Milne.
«Io non dormo mai», proseguì la voce, «ma la maggior parte della mia navigazione e del mio pilotaggio vengono eseguiti da un dispositivo automatico, senza che ciò richieda la mia attenzione consapevole. È lo stesso, vecchio autopilota Nelson che si trovava originariamente a bordo dell'Astrid, però, per cui lo tengo sotto stretto controllo. Se lei dovesse toccare i comandi mentre l'autopilota è in funzione, questo si spegnerebbe da solo e io riprenderei direttamente il comando».
Brant fu sorpreso, e istintivamente disgustato, da quel continuo flusso d'informazioni non richieste. Era un indizio brutale e appariscente di quanto grande fosse la presenza del computer in quell'intelligenza che chiamava se stessa Murray Bennett. Rispondeva alle domande, infatti, quasi con l'incurante ricchezza di dettagli di un selettore di biblioteca pubblica... e Brant non aveva a disposizione pulsanti da pigiare con la scritta "Basta".
«Ha intenzione di rispondere alla mia domanda?» disse improvvisamente la voce.
«Sì», disse Brant, «io la consiglio di consegnarsi alle autorità. L'Astrid dimostra che la sua argomentazione era corretta... ma dimostra anche che la sua ricerca era un vicolo cieco. Non serve che lei proceda alla costruzione di altre Astrid: lei stesso è consapevole di essere adesso incapace di migliorare il modello».
«Questo è contrario a ciò che ho registrato in me», replicò la voce. «Il mio scopo supremo, come uomo, era costruire macchine come questa. Io non posso accettare la sua risposta: essa è in conflitto con la mia direttiva primaria. Per favore, segua le luci fino al suo alloggio».
«Che cosa ha intenzione di fare di me?»
«Portarla alla mia base».
«Per che cosa?» chiese Brant.
«Come scorta di organi umani», spiegò la voce. «Per favore, segua le luci, altrimenti dovrò usare la forza».
Brant seguì le luci. Quando entrò nella cabina fino alla quale esse l'avevano guidato, una figura arruffata balzò su da una delle due cuccette. Brant balzò indietro, allarmato. La figura produsse una risatina forzata ed esibì un frammento di gallone dorato sulla sua manica.
«Non sono così orribile come sembro», disse. «Tenente Powell della nave di pattuglia Iapetus, Nazioni Unite, al suo servizio».
«Io sono Brant Kittinger, astrofisico dell'Istituto planetario. Non c'è dubbio che lei sia un po' malandato. Si è accapigliato con Bennett?»
«È questo il suo nome?» Il poliziotto delle Nazioni Unite annuì, tetro. «Sì, e c'è un numero incredibile di armi montate su questa vecchia tinozza. Io l'ho sfidata, e questa ha fatto a pezzi la mia nave prima ancora che potessi sollevare una mano. Sono riuscito a infilare la tuta spaziale appena in tempo... e ora comincio a desiderare di non averlo fatto».
«Non la biasimo. Sa già per che cosa ha in mente di usarci, immagino».
«Sì», annuì il poliziotto. «Sembra provar piacere nel vantarsi dei suoi successi... Dio sa se non sono stupefacenti, anche se soltanto la metà di quanto dice è vero!»
«È tutto vero», disse Brant, «è essenzialmente una macchina, sa, e come tale dubito che possa mentire».
Powell parve sorpreso: «Questo rende la cosa ancora peggiore. Ho cercato una via di scampo...»
Brant sollevò una mano di scatto, e con l'altra si frugò nelle tasche, alla ricerca d'una matita: «Se ha trovato qualcosa lo scriva, non ne parli. Credo che possa sentirci. Non è così, Bennett?»
«Sì», disse la voce nell'aria. Powell sussultò. «Il mio udito si estende per tutta la nave».
Vi fu di nuovo silenzio. Powell, tetro come la morte, scribacchiò qualcosa su un vecchio modulo spiegazzato delle Nazioni Unite:
Non ha importanza. Non sono riuscito a immaginare niente.
Dov'è il computer principale? scrisse Brant. È lì che devono trovarsi i residui della sua personalità.
Dì sotto. Non c'è una sola possibilità di arrivarci senza un disintegratore. Dev'esserci una corazzatura di almeno quindici centimetri tutt'intorno. E lo stesso vale per il comando dei circuiti nervosi.
Rimasero seduti nella cuccetta più bassa, impotenti. Brant masticava la matita. «Quant'è lontana da qui la sua base?» chiese, dopo qualche tempo.
«Dove ci troviamo, adesso?»
«In orbita intorno al nuovo pianeta del sistema solare».
Powell fischiò. «In questo caso la sua base non può trovarsi a più di tre giorni di distanza. Io sono salito a bordo subito fuori Titano, e da allora non ha mai fatto tappa alla sua base. Il propellente non durerà ancora a lungo. Conosco molto bene questo tipo di nave. E da quanto ho visto, i propulsori non sono stati modificati».
«Uh», fece Brant, «questo quadra. Se Bennett in persona non ha mai avuto modo di modificare la propulsione, questo surrogato di Bennett che abbiamo qui non avrà avuto neppure lui modo di farlo». Trovò più facile ignorare la presenza dell'ascoltatore mentre parlava; controllare continuamente le sue parole con Bennett in mente era troppo arduo per i suoi nervi. «Questo ci dà tre giorni per uscirne, allora. O anche meno».
Per una ventina di minuti Brant non disse altro, mentre il poliziotto delle Nazioni Unite se ne stava lì, sulle spine, fissando speranzoso il suo viso. Alla fine l'astronomo tornò a raccogliere il pezzo di carta.
Saprebbe pilotare questa nave? chiese.
Il poliziotto annuì e scribacchiò: Perché?
Senza rispondere, Brant si ridistese sulla cuccetta, girandosi sul fianco in modo che il suo viso fosse rivolto verso il centro della cabina, piegò le ginocchia e poi lanciò avanti entrambi i piedi che sbatterono con forza contro lo scafo; le borchie magnetiche delle sue scarpe lasciarono delle lucenti cicatrici sul metallo. Il contraccolpo lo mandò a volare come un goffo uccello attraverso la cabina.
«Perché l'ha fatto?» chiesero simultaneamente Powell e la voce nell'aria. Il tono del loro catturatore era leggermente incuriosito ma non allarmato.
Brant aveva già preparato la risposta: «Fa parte di una domanda che mi ero posto», spiegò. Si arrestò contro la parete opposta e si contorse per riportare i suoi piedi sul ponte. «Sa dirmi che cosa ho fatto adesso, Bennett?»
«Ebbene, non esattamente. Come le ho detto, non riesco a vedere dentro la nave. Ma ho ricevuto una scossa tattile dai nervi dei comandi, delle luci, delle paratie, del sistema di ventilazione, e così via, e anche un rimbombo dagli audio. Tutto ciò mi dice che lei ha picchiato i piedi sul pavimento o contro una paratia. Dall'intensità di tutte queste impressioni, calcolo che lei abbia scalciato con violenza».
«Ode e percepisce, eh?»
«Esatto», rispose la voce, «e inoltre posso anche cogliere il calore del suo corpo dai recettori del sistema di controllo termico della nave... una forma di visione, ma confusa e non definita».
Con molta calma, Brant recuperò il logoro foglietto di carta e vi scrisse sopra: Mi segua.
Quindi uscì fuori nel corridoio e si diresse verso la cabina di comando, con Powell alle calcagna. La nave vivente restò silenziosa soltanto per un attimo.
«Tornate nella vostra cabina», intimò.
Brant accelerò sensibilmente il passo. Come avrebbe potuto obbligarlo a obbedire ai suoi ordini, quella creazione maligna del cervello di Bennett?
«Ho detto, tornate nella vostra cabina», ripeté la voce. Adesso il suo tono si era fatto più stridulo e aspro, senza una sola traccia di sentimento. Per la prima volta Brant riuscì a precisare che doveva uscire da un sintetizzatore della voce umana più che da un vocabolario registrato su nastro della voce di Bennett. Brant, comunque, digrignò i denti e proseguì.
«Non voglio trovarmi costretto a danneggiarvi», disse ancora la voce. «Per l'ultima volta...»
Un istante più tardi, Brant ricevette un colpo violento sul fondo della schiena, e si trovò abbattuto come un albero. La violenza del colpo lo fece scivolare lungo il pavimento del corridoio come una piastrella. Una frazione di secondo più tardi vi furono un sibilo e un lampo, e l'aria divenne improvvisamente calda e soffocante per l'acudo odore di ozono.
«C'è mancato poco», disse la voce di Powell, con calma. «Evidentemente alcuni di questi bulloni sulla parete sono elettrodi ad alta tensione. È stata una fortuna che io abbia visto una luminosità formarsi intorno a quello. Strisci e si sbrighi».
Strisciare in un corridoio privo di gravità era assai più difficile che camminare. Ma Brant, spinto da un'estrema decisione, riuscì ugualmente a raggiungere la cabina di comando, contorcendosi come un serpente, facendo appello a tutti gli espedienti che aveva appreso nello spazio per tenersi aderente al pavimento. Sentì Powell che si dimenava dietro di lui.
«Lei non sa che cosa ho intenzione di fare», disse Brant ad alta voce, «non è vero, Bennett?»
«No», rispose la voce nell'aria. «Ma non so di niente che lei possa fare di realmente pericoloso, mentre si trova disteso sulla pancia. Quando si alzerà io la distruggerò, Brant».
«Uhmm», fece Brant. Si aggiustò gli occhiali sugli occhi, dopo aver quasi rischiato di perderli durante la sua breve capriola lungo il corridoio. La voce aveva riassunto la situazione con micidiale precisione. Brant tirò fuori il foglietto, ora ridotto quasi in poltiglia, dalla tasca della sua camicia, e lo spinse attraverso il pavimento, in direzione di Powell.
Come possiamo raggiungere l'autopilota? Dobbiamo fracassarlo.
Powell si tirò su puntando un gomito e studiò il pezzo di carta, accigliandosi. In basso, sotto il ponte, ci fu un improvviso pulsare d'energia, e Brant sentì il freddo metallo sul quale era di steso sprofondare sotto di lui. Bennett stava cambiando rotta, cercando di scagliarli a portata delle sue difese. Entrambi gli uomini cominciarono a scivolare di lato.
Powell non parve preoccupato; evidentemente, sapeva quanto tempo era necessario per far ruotare una nave di quelle dimensioni e di quel periodo d'oscillazione e spinse nuovamente verso Brant il pezzo di carta. Sull'ultimo spazio rimasto libero c'era scritto, con una calligrafia molto fitta: Gli scaraventi addosso qualcosa.
«Ah», fece Brant. Sempre continuando a scivolare, si sfilò uno degli scarponi e lo soppesò, valutandone la massa. Sarebbe andato bene. Con un'improvviso scatto convulso, lo scagliò.
Lunghe scintille crepitanti solcarono il locale da ogni lato, con un fracasso da spaccare i timpani. Pur non potendo Bennett avere alcuna idea di ciò che Brant stava facendo, ovviamente aveva percepito l'improvviso movimento, e aveva inserito la corrente ad alta tensione a scopo precauzionale. Ma era troppo tardi. Lo scarpone concluse il volo, sprofondando col tacco nell'autopilota, con un fracasso tremendo.
Una cacofonia sfuocata uscì dal sintetizzatore vocale... più simile al fischio di una sirena che a un grido umano. L'Astrid roteò su se stessa, incontrollatamente. Poi vi fu silenzio.
«Va bene», disse Brant, sollevandosi sulle ginocchia. «Provi i comandi, Powell».
Il pilota delle Nazioni Unite si alzò cautamente. Non volarono scintille. Quando toccò il quadro di comando, la nave subito reagì con un ronfare d'energia.
«Funziona», annunciò Powell. «E adesso mi dica: come faceva a sapere ciò che andava fatto?»
«Non è stato difficile», esclamò Brant, compiaciuto, recuperando la scarpa magnetica. «Ma non siamo ancora usciti dalla foresta. Dobbiamo scender subito ai magazzini e procurarci un paio di fiamme ossidriche. Voglio recidere tutti, fino all'ultimo, i condotti nervosi che riusciremo a trovare. È d'accordo con me?»
«Sicuro».
Il lavoro fu eseguito più rapidamente di quanto Brant avesse osato sperare. Evidentemente, la nave vivente non aveva mai pensato di alleggerirsi, liberandosi di tutte le attrezzature di cui un tempo il suo equipaggio umano aveva avuto bisogno. Mentre Brant e Powell si aprivano entusiasticamente la strada nella giungla dei nervi efferenti che uscivano dal computer centrale, l'astronomo disse:
«Ci ha dato troppe informazioni. Mi ha detto che aveva collegato i nervi artificiali della nave alle terminazioni nervose che uscivano dal suo cervello, che aveva usato per "umanizzare" l'Astrid. E mi ha detto anche che aveva dovuto eseguire centinaia di collegamenti del genere. È questo, appunto, il guaio al quale si va incontro quando si consente a un computer di agire come un'entità indipendente... un computer non ne sa abbastanza di relazioni interpersonali da tener a freno la lingua. Ed eccoci qui. Si riprenderà tra non molto, ma non credo che sarà in grado d'interferire con noi, adesso».
Mise giù la fiamma ossidrica con un sospiro. «Che cosa stavo dicendo? Ah, sì. A proposito di quei collegamenti nervosi: se avesse separato i nervi che trasmettono le sensazioni dolorifiche dagli altri nervi sensori, avrebbe dovuto eseguire migliaia di collegamenti, non centinaia. Se fosse stato un vero essere umano, l'autentico Bennett, a darmi questo indizio, non l'avrei preso in considerazione, poiché avrebbe potuto darsi che Bennett avesse usato quella cifra, minimizzandola, come modo di dire. Ma dal momento che a parlare era il doppione di Bennett, un computer, ho supposto che quel numero fosse esatto.
«Inoltre, non credevo che Bennett, in ogni caso, sarebbe stato in grado di eseguire migliaia di collegamenti, specialmente lavorando telepaticamente per interposta persona. C'è un limite perfino alle più straordinarie tecniche di neurochirurgia. Bennett si era limitato a compiere dei collegamenti generali, e si era affidato a un segmento del suo cervello che aveva incorporato nella nave per selezionare i vari tipi d'impulsi, man mano arrivavano a gruppi... proprio come un qualunque cervello umano avrebbe fatto in simili circostanze. Questo, appunto, era uno dei principali vantaggi ottenuti servendosi di un cervello umano».
«E quando lei ha dato il calcio alla parete...» disse Powell.
«Sì, lei ha colto il punto cruciale. Quando ho dato quel calcio, volevo accertarmi se poteva percepire il colpo delle mie scarpe. Se era nelle condizioni di farlo, allora potevo esser sicuro che non aveva eliminato i nervi sensori quando aveva collegato i nervi motori. E se non li aveva eliminati, allora dovevano per forza esser presenti anche delle fibre che trasmettevano il dolore».
«Ma cosa aveva a che fare l'autopilota con tutto questo?» chiese Powell, ancora perplesso.
«L'autopilota», disse Brant, sorridendo, «è un ganglio della sua rete nervosa, un centro importante. Bennett avrebbe dovuto proteggerlo massicciamente, come aveva protetto il computer principale. Quando l'ho fracassato, è stato come se avessi vibrato un pugno contro il plesso solare di un uomo. Gli ha fatto un male tremendo».
Cade la notte
Nightfall
di Isaac Asimov
Astounding Science Fiction, settembre
(Bene, eccola qui. Nightfall (Cade la notte) fu la mia sedicesima storia a venire pubblicata, ma è la trentaduesima che avevo scritto. La scrissi nel marzo del 1941, quando avevo ventun anni e un quarto ed è la mia prima storia per cui Campbell mi pagò un sovrappremio. E fu anche la mia prima storia che servì da principale romanzo breve a un numero di «Astounding». Inoltre fu la mia prima storia che si meritò una copertina su «Astounding».
È chiaro che per me fu una pietra miliare.
Solo che a quel tempo non mi resi conto esattamente del fatto che lo fosse.
A quel tempo, Nightfall fu solo un'altra storia che avevo scritto e non fece molto fracasso, ma col passare dei mesi e degli anni, mi sembrò sempre crescere in retrospettiva finché adesso non solo è opinione unanime che essa sia il miglior racconto che io abbia mai scritto, ma sembra sia anche opinione unanime che essa sia il miglior racconto di fantascienza mai scritto. O almeno si è piazzata al primo posto in diverse votazioni, compresa quella fatta dall'Unione degli Scrittori Americani di Fantascienza.
Io mi affretto a dire che non sono d'accordo. Secondo me sono ben tre i racconti che ho scritto e che giudico migliori e provvederò a che vengano inclusi in questa serie quando arriveremo all'anno corrispondente. In effetti, penso che Nightfall abbia dei gravi difetti e una certa rozzezza di scrittura. Tuttavia, dopo la sua pubblicazione, non ho mai più scritto un solo racconto di fantascienza che non sia stato pubblicato e molto pochi che non siano stati accettati dal primo direttore cui li ho sottoposti... perciò direi che Nightfall, scritta neanche tre anni dopo da che avevo iniziato a sottoporre dei racconti per la pubblicazione, segnò allora la fine del mio apprendistato. - I.A.)
Il rettore dell'Università di Saro, Aton 77, fulminò il giovane giornalista con uno sguardo di fuoco, sporgendo il labbro inferiore con aria di sfida.
Ma Theremon 762 non si scompose. Quando, agli albori della carriera, la sua rubrica, ora oggetto di discussioni alquanto aspre, era solo un'idea nel suo cervello di giornalista dilettante, si era specializzato in interviste impossibili. Anche se ne aveva ricavato lividi, occhi blu e ossa rotte, ci aveva anche guadagnato un gran sangue freddo e un'immensa sicurezza di.se stesso.
Attese con calma che il rettore calmasse la tempesta dentro di sé, ritirando la mano che era stata ignorata. Del resto gli astronomi erano degli originali e Aton ne deteneva la palma, se il suo comportamento degli ultimi due mesi poteva significare qualcosa.
Fremendo di emozione compressa a stento, Aton 77 ritrovò la voce ma non seppe resistere alla sua consueta fraseologia prudente e noiosa.
«Devo ammettere», disse, «che non le manca una faccia tosta notevole nel venire a dire a me certe cose».
Lo interruppe Beenay 25, il telefotografo dell'Osservatorio, che si umettava nervosamente le labbra aride.
«Ma signore, veramente...»
Il rettore si voltò a guardarlo, con l'unico movimento di sollevare il sopracciglio.
«Beenay, ho chiesto la sua opinione? Ammetto che lei lo abbia fatto in buona fede, ma non tollero insubordinazioni!»
Per Theremon era il momento di farsi sentire.
«Senta, signor rettore, mi lasci finire quello che ho cominciato...»
Aton lo bloccò subito. «Non credo che lei abbia da dirmi cose più sensate delle idiozie che scrive sulla sua rubrica da due mesi. Lei ci ha scatenato addosso una campagna giornalistica, a me e ai miei colleghi che cerchiamo di organizzare il mondo contro la minaccia che ormai non si può più evitare. Non ha certo esitato a coprire di ridicolo tutti quelli che lavorano all'Osservatorio, con le sue frecciate personali...»
Il rettore prese dal tavolo la copia della Cronaca di Città di Saro sventolandola furiosamente verso Theremon.
«Anche un impudente come lei dovrebbe esitare prima di venire a farmi una richiesta che potrebbe fornirle i titoli di prima pagina del suo giornale. Proprio lei...»
Lasciò cadere il giornale e avanzò verso la finestra con le mani intrecciate dietro la schiena.
«Adesso può andarsene», sbottò, con gli occhi puntati in cielo, dove Gamma il più splendente dei sei soli del pianeta, tramontava. Aton sapeva che non avrebbe più visto il sole che sbiadiva tra le nebbie dell'orizzonte, almeno in perfetta coscienza intellettiva.
Scattò, girandosi.
«Un momento, venga qui», disse, accompagnando le parole con un gesto d'imposizione, «va bene, le dirò quello che vuole sapere».
Theremon che non aveva affatto intenzione di andarsene, si avvicinò. Aton gli indicò il cielo.
«Avevamo sei soli, ce n'è rimasto solo uno adesso, Beta. Vede?»
Non ebbe risposta. Beta era quasi allo zenith. La sua luce rossa tingeva il paesaggio con una sfumatura aranciata, mentre i raggi di Gamma morivano. Ora all'apogeo, Beta era molto più piccolo di quanto Theremon lo avesse mai visto. Per ora era il solo signore del cielo di Lagash.
Il vero sole di Lagash, Alpha, l'unico attorno cui il pianeta effettivamente ruotava, era agli antipodi, come pure le coppie di soli gemelli. Beta, la nana rossa compagna di Alpha, era tragicamente sola.
La luce solare dava al volto di Aton un colorito vermiglio.
«Fra nemmeno quattro ore la nostra civiltà morirà. E questo perché Beta è rimasto l'unico sole del nostro cielo», sorrise senza allegria, «lo stampi, lo pubblichi pure, tanto non potrà leggerlo nessuno!»
«Ma e... non è possibile che passino quattro ore e ancora altre senza che succeda niente?» suggerì Theremon.
«Ah, vedrà, vedrà che succederà anche troppo!»
«Va bene, ma se invece non succedesse niente?»
Beenay 25 si intromise di nuovo.
«Signore, dovrebbe ascoltarlo».
«Mettiamolo ai voti, rettore», disse Theremon.
Un brivido sembrò animare gli altri cinque operatori dell'Osservatorio che fino ad allora si erano chiusi in un atteggiamento neutrale.
La voce di Aton era incolore: «Non ce n'è bisogno». E si tirò fuori dalla tasca l'orologio. «Le concedo cinque minuti, visto che Beenay insiste. Avanti».
«Perché allora non mi lascia accertare con assoluta certezza quanto succederà? Tanto se accade non potrò certo scrivere l'articolo e se invece non accade si aspetti solo ridicolo o peggio. In questo caso, per lei è meglio che il ridicolo tocchi a un amico».
«E questo amico chi sarebbe?» sbuffò Aton. «Lei per caso?»
«Sicuro». Theremon si mise a sedere. «D'accordo i miei articoli sono stati un po' irriverenti, d'accordo, ma le ho sempre concesso il beneficio del dubbio, no? Questo secolo non è il più adatto per predicare a Lagash una apocalisse. La gente non crede più al "libro delle Rivelazioni". Non è certo incoraggiante che gli scienziati comincino a convertirsi alle tesi dei Cultisti...»
«Giovanotto, può essere che alcuni dei nostri dati provengano dal Culto, ma i risultati ottenuti non hanno niente a che vedere col misticismo del Culto. La "mitologia" del Culto si basa su alcuni fatti incontestabili, e noi li abbiamo liberati dal loro involucro di mistero. Anzi, le dirò, i Cultisti ci odiano più di lei!»
«Io non la odio, rettore Aton; io voglio farle capire che l'opinione pubblica non è favorevole a lei, anzi...»
Il rettore stortò sprezzante la bocca.
«E chi se ne frega!»
«Già, ma... e domani?»
«Domani... non ci sarà nessun domani!»
«Mettiamo che ci sia invece... ammettiamolo, così, tanto per fare una ipotesi. Il malcontento generale può peggiorare, lei sa benissimo che l'andamento degli affari è crollato ultimamente. Loro, gli uomini d'affari non credono alla fine del mondo e si tengono stretti i loro quattrini e aspettano che passi la crisi. Neanche l'uomo della strada ci crede, ma vuole vedere prima cosa succederà. Lo sa? Quando la crisi sarà passata il desiderio più violento sarà quello della vendetta, vendetta contro di lei! Diranno che se un qualsiasi pazzo può sconvolgere il paese quando gli salta in testa, è interesse del pianeta liberarsene... vedrà che succederà!»
Il rettore lo squadrò severo.
«E lei vorrebbe aiutarmi? E come?»
«Intendo occuparmi della pubblicità», sogghignò Theremon, «posso mettere in risalto solo il lato ridicolo. Non dico che sarà facile, certo, dovrete passare per un branco di imbecilli, ma se l'opinione pubblica riderà, lascerà perdere l'odio. Però il mio editore vuole in cambio l'esclusiva delle sue dichiarazioni!»
Beenay annuì, poi proruppe: «Ha ragione, lo pensiamo tutti. Non abbiamo mai pensato che nella nostra teoria e nei nostri calcoli ci potesse essere un errore, la cui probabilità è una su un milione, ma dovremmo farlo».
Dal tavolo dove erano raggruppati gli altri giunse un mormorio di consenso. Aton abbozzò una smorfia, come se non riuscisse a liberarsi del fiele che si sentiva in bocca.
«E va bene, se ci tiene, resti. Ma per favore non ci intralci. Non dimentichi che io sono il responsabile di quanto succede qua dentro e io voglio assoluta collaborazione e rispetto...»
Le sue mani erano sempre intrecciate sulla schiena e il volto teso in avanti. E aveva tutta l'aria di restare così per sempre, se non ci fosse stata una interruzione.
«Salve!» il nuovo venuto era dotato di voce tenorile e di un sorriso compiaciuto. «Beh, cos'è quest'aria da funerale? Non starete perdendo la testa?!?»
Aton era costernato.
«Sheerin, che ci fa lei qui?» sbottò, «non doveva essere sepolto nel Rifugio?»
Sheerin si abbatté su una sedia ridendo.
«Che vada al diavolo il Rifugio! Non mi piace. Invece mi piacciono le situazioni scottanti e poi sono anche curioso. Voglio vedere queste stelle dei Cultisti!» Poi aggiunse in tono più serio: «È freddo fuori! Si attaccano i ghiaccioli al naso! Beta è così lontano che non emana alcun calore!»
Il rettore esasperato digrignò i denti.
«Sheerin, cosa crede di fare a venire qui? Perché si è messo a fare follie? Pensi al suo lavoro!»
«Follie?» rassegnato Sheerin allargò le mani. «Nel Rifugio uno psicologo è perfettamente inutile. Ci vogliono uomini forti e donne sane per allevare bambini. Io sono troppo grasso per fare l'uomo d'azione e non sono particolarmente portato ai bambini. Per cui ho preferito levarmi di mezzo. Qui sto meglio».
Theremon era incuriosito: «Cos'è questo Rifugio?»
Sheerin lo guardò con sguardo incuriosito. Accigliato, gonfiò le guance.
«E lei chi sarebbe?»
Aton mormorò a labbra strette.
«È Theremon, il giornalista. Deve averlo già sentito nominare».
Il giornalista tese la mano.
«Naturalmente lei è Sheerin 501, Università di Saro. La conosco per sentito dire», e ripeté, «ma cos'è questo Rifugio?»
«Beh, abbiamo convinto un po' di gente della nostra profezia sulla fine del mondo. Sono state prese le precauzioni necessarie. In genere sono i parenti del personale dell'Osservatorio, insegnanti e alcuni estranei. Trecento persone in tutto, di cui la maggior parte sono donne e bambini».
«Ah, si sono rintanati dove l'oscurità e le stelle non li troveranno mai. Ma tutti gli altri morranno».
«Non è così semplice, dopo la distruzione delle città e la follia collettiva, sarà dura per chi sopravviverà. Ma avranno almeno protezione, riserve d'acqua e di cibo, armi...»
«Non solo questo», intervenne Aton, «hanno tutte le registrazioni eccezion fatta per quelle di oggi. Queste registrazioni spiegheranno la verità alle generazioni future, devono sopravvivere, il resto non ha alcuna importanza».
Theremon modulò un lungo fischio e meditò in silenzio. Gli uomini al tavolo avevano preso una scacchiera multipla e stavano giocando in sei, con mosse rapide, mute e con gli occhi fissi sulla scacchiera. Theremon dopo un istante si alzò e si avvicinò ad Aton che parlava piano con Sheerin.
«Senta, andiamo da qualche parte dove possiamo parlare in pace. Ho delle domande da farle».
L'astronomo lo guardò malamente e Sheerin intervenne.
«Ma sì, sarà bene parlare un po'. Aton mi ha detto delle reazioni dell'opinione pubblica in caso le previsioni non si avverassero. E la penso come lei, io la leggo sempre e non sono del tutto in disaccordo con lei».
Aton grugnì: «Sheerin, la prego!»
«Cosa? Ah, sì, giusto. Andiamo di là. Staremo più comodi».
Nell'altra stanza c'erano poltrone più comode e pesanti tende rosse alle finestre. Il pavimento era ricoperto da un tappeto marrone. Con la luce rossastra di Beta la stanza sembrava insanguinata.
Theremon non poté trattenere un brivido.
«Non so che darei per avere almeno un secondo solo di luce bianca. Se in cielo ci fossero Gamma o Delta...!»
Aton lo interpellò: «Che domande vuol farmi? Si ricordi che abbiamo pochissimo tempo. Un'ora e un quarto per l'esattezza, poi di sopra non potremo più parlare».
«Bene, ascolti», Theremon si appoggiò all'indietro a braccia incrociate sul petto, «siete tutti così convinti che comincio a crederci anch'io. Mi vuol spiegare?»
Aton esplose: «Cosa? Lei ci bersaglia con le sue domande e non ha ancora capito di che si tratta?»
Il giornalista abbozzò un timido sorriso.
«Non esageriamo. Ho afferrato il concetto. Sta per verificarsi un evento che produrrà Oscurità su tutto il pianeta in poche ore e l'umanità impazzirà. Ma io voglio le giustificazioni scientifiche».
Sheerin lo interruppe: «Non ci siamo, se lei pone ad Aton una domanda del genere, ammesso che voglia risponderle, lui le sciorinerà pagine e pagine stampate e montagne di grafici. E lei non ci si raccapezzerebbe più. Ma io posso spiegarle il tutto in parole semplici».
«Va bene, allora me lo dica lei».
«Prima vorrei bere qualcosa». Sheerin sbirciò Aton fregandosi le mani.
«Acqua?» grugnì Aton.
«Non faccia lo spiritoso!»
«Non faccia lei lo spiritoso. Oggi niente alcool. Non voglio indurre in tentazione i miei uomini».
Lo psicologo borbottò qualcosa comprensibile solo a lui. Inchiodò Theremon con lo sguardo e cominciò.
«Lei saprà, immagino, che la storia della civiltà di Lagash ha carattere ciclico. Un vero carattere ciclico».
Theremon rispose con prudenza: «Certo, è la teoria archeologica comune, ma è stata verificata?»
«Questo è il punto. Nell'ultimo secolo ci si è trovati d'accordo su ciò. Il carattere ciclico è, anzi era, uno dei grandi misteri cosmici. Sono stati trovati i resti di nove diverse civiltà e molte altre non identificate con sicurezza, tutte avevano raggiunto un altissimo livello, simile al nostro, tutte sono state distrutte da incendi colossali al loro apogeo. Non si spiega il motivo. È sempre stato il fuoco a distruggere queste civiltà, ma non si spiegano le cause».
Theremon non perdeva una parola.
«Non c'è una Età della Pietra?»
«Probabilmente, ma non ne sono rimaste tracce, si sa solo che gli uomini di quell'era erano scimmie evolute. Non ha importanza questo».
«Già, prosegua!»
«Ci sono state moltissime spiegazioni di queste catastrofi ricorrenti, ma tutte sono fantasiose. Chi dice che periodicamente c'è un diluvio di fuoco, chi che Lagash attraversa uno dei soli, chi peggio ancora. Ma i secoli ci hanno tramandata un'altra teoria, molto diversa».
«Lei allude al mito delle Stelle, citato dai Cultisti nel "Libro delle Rivelazioni"».
«Già», Sheerin era soddisfatto. «I Cultisti dicono che ogni centocinquant'anni, Lagash entra in una caverna e i suoi soli spariscono, da qui la Oscurità che copre il mondo.. Allora arrivano le Stelle che rubano agli uomini la loro anima e li fanno diventare dei pazzi incoscienti che distruggono la loro stessa civiltà. Ci sono frammischiate molte nozioni mistico-religiose, ma il succo è questo».
Sheerin respirò a fondo.
«Ora ci avviciniamo alla Teoria della Gravitazione Universale», disse sottolineando le maiuscole. Aton sbuffò e uscì.
Quando fu uscito Theremon disse:
«Qualcosa che non va?»
«Direi di no», ribatté Sheerin, «i due che dovevano prendere servizio qualche ora fa non si son fatti vivi. Tutti gli uomini, tranne quelli indispensabili, sono scesi al Rifugio».
«Non è possibile che abbiano disertato?»
«Faro e Yimot? No, impossibile. Se non arriveranno tra un'ora, avremo guai». Scattò in piedi: «Ma visto che Aton se n'è andato...»
Andò alla finestra e da uno scaffale sotto il davanzale estrasse una bottiglia piena di liquido rosso che gorgogliò allettante.
«Aton non dovrebbe saperlo», disse tornando al tavolo, «c'è un bicchiere solo, ed è suo, visto che è l'ospite. Io mi servo dalla bottiglia». E gli riempi il bicchiere attentamente.
Theremon cercò di protestare, ma Sheerin lo fulminò.
«Giovanotto, rispetti gli anziani!»
Il giornalista si risedette con un'espressione di sofferenza.
«Va bene, avanti!»
Lo psicologo sollevò la bottiglia e se la incollò alla bocca e soddisfatto riattaccò.
«Che ne sa della gravitazione?»
«So solo che è una teoria sviluppata recentemente e non del tutto chiara. Dev'essere così complicata che solo dodici uomini su tutto Lagash la capiscono».
«Idiozie! Il concetto si riassume in una frase. Secondo la Legge della Gravitazione Universale tra tutti i corpi dell'universo c'è una forza di attrazione e tale attrazione reciproca tra due corpi è proporzionale alla somma delle loro masse diviso per la distanza al quadrato».
«Ah, semplicissimo!»
«Beh, ci son voluti quattrocento anni per definirlo!»
«Così tanto? Come mai? È semplice così come lo ha enunciato lei!»
«Non basta un lampo di genio per indovinare le leggi fisiche. Ci si arriva dopo secoli e secoli di lavoro di scienziati di un mondo intero. Quattrocento anni fa Genovi 41 ha scoperto che era Lagash a ruotare attorno al sole Alfa e non il contrario e si è lavorato su questi presupposti da allora. Le nozioni sui sei soli sono state analizzate, dibattute. Teorie su teorie, controllate, modificate, trasformate».
Theremon annuì e allungò il bicchiere. Sheerin gli concesse alcune gocce rubino dalla bottiglia.
«Vent'anni fa», disse dopo essersi inumidito la gola, «sì, venti anni fa, c'è stata la dimostrazione che la Teoria Gravitazionale spiega perfettamente il moto orbitale dei sei soli. Un grande trionfo scientifico!»
Sheerin si avvicinò alla finestra senza abbandonare la bottiglia.
«Eccoci al punto centrale. Nell'ultimo decennio il moto di Lagash attorno ad Alfa è stato calcolato secondo la legge gravitazionale; ma l'orbita reale non coincide con l'orbita teorica. Nemmeno se si calcolano le perturbazioni da attrazione degli altri soli. No, o la legge non è valida o c'è un altro fattore, ancora ignoto».
Theremon raggiunse Sheerin e spinse lo sguardo dalla finestra dove le guglie della Città di Saro, accese di rosso, scintillavano in distanza. Con un irrefrenabile senso di incertezza guardò Beta che splendeva rosso e maligno, allo zenith.
«E poi?» disse sottovoce.
«Be', gli astronomi ci hanno pensato su per anni, ognuno con una teoria più fantastica... poi Aton decise di rivolgersi al Culto. Sor 5, il loro capo, gli fornì dei dati che semplificarono la questione. Si cambiò completamente indirizzo. E se ci fosse stato un altro pianeta non luminoso come Lagash? Capisce bene che in questo caso dovrebbe risplendere di luce riflessa, ma se come Lagash fosse composto di roccia azzurrina, sarebbe invisibile, cancellato completamente dai soli».
Theremon fischiò.
«È assurdo!»
«Non direi! Faccia conto che questo pianeta ruoti attorno a Lagash a una determinata distanza e a una determinata orbita e abbia una massa tale da spiegare la deviazione di Lagash dall'orbita teorica... sa cosa significa?»
Il giornalista fece un cenno di diniego.
«Beh, prima o poi questo pianeta passerà tra Lagash e uno dei soli». Sheerin scolò il resto della bottiglia con un sorso solo.
«Già, penso proprio che succederebbe questo!» La voce di Theremon era incolore.
«Ma solo un sole si trova sullo stesso piano di rivoluzione», disse Sheerin indicando il sole alto nel cielo. «Beta! E l'eclissi può verificarsi solo quando Beta si troverà in questo emisfero, alla massima distanza da Lagash, mentre l'altro pianeta sarebbe alla distanza minima. Poiché questo corpo ha un diametro apparente che è sette volte quello di Lagash, l'eclisse coprirebbe Lagash per mezza giornata, e ciò si verifica ogni duemilaquarantanove anni».
Theremon era impassibile.
«E io dovrei pubblicare queste cose?»
Sheerin annuì.
«È tutto. Prima l'eclisse che comincerà tra tre quarti d'ora, poi l'Oscurità completa, e le Stelle, poi la follia generale e la fine del cielo», rifletté. «Non abbiamo potuto convincere Lagash del pericolo solo in due mesi, non sarebbero bastati due secoli. Tutte le registrazioni sono al Rifugio e oggi fotograferemo l'eclisse. Il prossimo ciclo conoscerà la verità e alla prossima eclisse l'umanità sarà preparata. Questa è una delle notizie che le interessano».
Theremon aprì la finestra e un lieve soffio di vento animò le tende e gli attraversò i capelli. La sua mano era rossa per il riflesso del sole. Improvvisamente si ribellò.
«Come può l'Oscurità fare impazzire?»
Sheerin sorrideva tra sé, girando e rigirandosi in mano la bottiglia.
«L'ha mai provata, giovanotto?»
Il giornalista rifletteva addossato al muro.
«No, no di certo, ma so cos'è...», un po' incerto agitò le dita, poi sbottò: «ma sì, è mancanza di luce! Come nelle grotte!»
«Ma lei è mai stato in una grotta?»
«Cosa, io? No certo!»
«Già, io ci ho provato tanto per provare, sono scappato subito. Mi sono spinto dentro la caverna fin quando vedevo solo un puntino di luce, tutto intorno c'era il buio. Non avrei mai pensato di filarmela così alla svelta».
Theremon storse la bocca.
«Be', non credo che al suo posto mi sarei messo a correre».
Lo psicologo lo guardò con disprezzo.
«Non può dirlo. Tiri le tende».
Theremon fu colto di sorpresa.
«Perché? Quando ci sono quattro o cinque soli va bene, contro il riverbero troppo forte, ma ora è già abbastanza buio».
«Proprio questo voglio farle vedere. Chiuda e venga qui a sedersi».
«Va bene». Theremon andò a tirare la tenda rossa che chiuse la finestra, mentre gli anelli dorati correvano sulla riioga un'ombra rosso cupo si allargò nella stanza.
Theremon tornò verso la tavola, i suoi passi suonavano stranamente nel silenzio.
«Non la vedo», soffiò.
Sheerin ordinò nervosamente: «Avanzi a tentoni».
«Ma non la vedo», il giornalista annaspava, «non vedo niente».
«E che si credeva?» risuonò la voce di Sheerin, «venga qui».
Si udirono di nuovo i passi incerti, lenti del giornalista. Poi un rumore, qualcuno che inciampa.
Theremon parlò con voce esile.
«Sono qui, be', devo... tutto bene!»
«Le piace?»
«No, no... È impressionante. Le pareti pare che...» tacque un istante, «pare che mi crollino addosso. Desidero spingerle lontano. Ma non sto impazzendo. Non è così terribile come diceva».
«Bene. Vada ad aprire le tende».
I passi si allontanarono cautamente nel buio, poi il corpo del giornalista urtò la tenda e si sentì il fruscio della tenda. La luce rossa investì la stanza e Theremon guardò il sole con un sospiro di sollievo.
Sheerin si deterse la fronte sudata e disse tremante:
«Pensi che era solo una stanza buia!»
Theremon affermò: «È sopportabile!»
«Già, in una stanza sì. È stato all'Esposizione del Centenario a Jonglor un paio di anni fa?»
«No, una visita all'Esposizione non vale seimila miglia!»
«Be', io sì. Ha sentito parlare del Tunnel del Mistero, al parco dei divertimenti? Ha battuto il record degli incassi solo nel primo mese».
«Ah, sì, ma ci sono stati dei guai, mi sembra».
«Oh, stupidaggini, messe subito a tacere. Era un tunnel di un miglio, completamente buio. Si saliva su un carrello e si veniva trascinati per un quarto d'ora nel buio. Ebbe successo... finché durò».
«Ah sì?»
«Certo, la paura è una emozione affascinante, se si scherza. Le paure fondamentali sono tre, la paura dei rumori, la paura di cadere e la paura del buio. È divertente saltare addosso a qualcuno all'improvviso e gridargli per spaventarlo. È divertente salire su un ottovolante, già, così il Tunnel ebbe un grosso successo di pubblico. Uscivano impauriti, tremanti ma eccitati e compravano il biglietto per un altro giro».
«Sì, sì, ricordo adesso. C'è scappato il morto vero? Ne hanno parlato molto dopo la chiusura del Tunnel».
Sheerin sbuffò.
«Due o tre. Ma la cosa si chiuse con l'indennizzo delle famiglie e il Consiglio di Jonglor affossò il tutto. Se dei cardiopatici vogliono rischiare, fatti loro. Per evitare che si ripetesse chi voleva entrare nel Tunnel doveva essere visitato da un medico. E la vendita dei biglietti aumentò».
«Poi?»
«Be', non è tutto qui, la gente usciva dal Tunnel in perfette condizioni fisiche, ma cominciava a soffrire di claustrofobia. Non voleva più entrare negli edifici, di qualsiasi genere fossero. Palazzi, case, capanne, appartamenti, uffici, tende, capannoni».
Theremon accusò il colpo.
«Cioè rifiutavano di entrare in luoghi chiusi? Dove dormivano?»
«All'aperto».
«Be', dovevano costringerli».
«Infatti, ma una volta al chiuso furono colti da crisi isteriche, sbattevano la testa contro i muri, si potevano tenere dentro solo con iniezioni calmanti e camicie di forza».
«Erano pazzi».
«Già, una persona su dieci di quelle entrate nel Tunnel erano impazzite. L'unica cosa da farsi fu di chiudere il Tunnel».
«Ma cosa gli era successo?» chiese Theremon.
«Be', più o meno quello che è successo a lei quando ha pensato che le pareti le crollassero addosso. È proprio quella che si definisce "claustrofobia", la paura del buio, unita a luoghi chiusi. Chiaro?»
«E quella gente impazzita?»
«Be', quella gente non fu in grado di superare la crisi di claustrofobia. Quindici minuti senza luce è molto. Quella gente soffriva di "fissazione claustrofobica". Il terrore del buio e del chiuso latente in loro si manifestava in modo permanente. Ecco le conseguenze di quindici minuti d'Oscurità».
Theremon corrugò lentamente la fronte.
«Non mi sembra così terribile».
«Lei rifiuta di crederlo», scattò Sheerin, «ha paura. Guardi dalla finestra!»
Theremon eseguì mentre Sheerin continuava.
«Pensi all'Oscurità dappertutto. Niente luce, da nessuna parte. Case, alberi, terra, cielo... nero, tutto nero. E in quel nero le Stelle, qualsiasi cosa siano. Riesce a immaginarlo?»
«Sì», Theremon lo affermò sicuro di sé.
Sheerin irritato sparò un pugno sul tavolo.
«No, non è vero. Il suo cervello non può concepire il concetto di Oscurità, né quello di infinito né di eternità. Ne può parlare sì, ma basta. La sua mente è sconvolta da ogni minima parte di verità, e quando dovrà affrontare la realtà tutta la realtà, lei impazzirà. Sì, impazzirà, definitivamente» e aggiunse tristemente, «altri due millenni di lotte e conquiste inutili; domani su tutta Lagash non resterà una sola città».
Theremon sembrò rientrare in sé.
«Non capisco perché devo impazzire, solo perché il cielo diventerà buio. Ma anche se fosse, e tutti impazzissero, come potrebbero essere distrutte le città? Vuol dire che le distruggeremmo noi?»
Sheerin era esasperato.
«Se lei si trovasse al buio cosa vorrebbe? Cosa esigerebbe disperatamente? La luce, la luce!»
«Be'?»
«Come potrebbe avere la luce?»
«Che ne so?», Theremon esalò sottovoce.
«Qual è il solo modo per avere luce se non c'è il sole?»
«Che ne so?»
Si trovarono faccia a faccia.
Sheerin gli soffiò: «Lei brucerebbe qualcosa, ha mai visto una foresta in fiamme? Mai andato in campeggio? La legna che brucia non produce solo calore ma anche luce. Così si ottiene la luce quando scende l'Oscurità».
«Bruciando legna?»
«Bruciando tutto quello che hanno. Vogliono solo luce. Devono far fuoco, se non hanno legna, bruciano tutto, città, villaggio...»
Si affrontarono come due nemici, misurando le proprie volontà. Poi Theremon senza parole indietreggiò, ansante, non si accorse del tramestio che veniva dalla stanza accanto.
Sheerin trovò a fatica le parole.
«È la voce di Yimot. Lui e Faro sono tornati. Andiamo a vedere».
«Sì», Theremon mormorando respirò a fondo, e la tensione si incrinò.
Gli uomini dell'Osservatorio si erano raggruppati attorno ai due giovani che si stavano sbarazzando dell'equipaggiamento, mentre cercavano contemporaneamente di rispondere alle domande. La confusione era notevole.
Aton avanzò per affrontare i due irosamente.
«Sapete che manca solo quasi mezz'ora? Lo sapete? Dove vi siete cacciati?»
Faro 24 sedette fregandosi le mani. Aveva le guance rosse.
«Io e Yimot abbiamo fatto un esperimento a titolo personale. Abbiamo costruito un ambiente che simulasse l'Oscurità e le Stelle, per immaginare come sono».
Gli ascoltatori mormorarono. Aton dimostrò un certo interesse.
«Ma perché non l'avete detto? Che avete fatto?»
«Be'», disse Faro, «è un'idea che abbiamo avuto molto tempo fa. Yimot aveva visto una casa a un piano col tetto a cupola, un ex museo credo. L'abbiamo comprata...»
«Con quale denaro?» sbottò Aton.
«Ci siamo fatti fare un prestito dalla banca», ribatté Yimot 70. «Duemila crediti. E che importa? Domani duemila crediti saranno carta straccia!»
Faro confermò: «Sì, l'abbiamo tappezzata di nero, per riprodurre la Oscurità; abbiamo fatto dei buchi nel soffitto e ci abbiamo messo dei coperchietti metallici semoventi tramite un interruttore. Be', questo non l'abbiamo fatto noi veramente. Abbiamo assunto degli esperti. Noi volevamo che la luce passasse da quei buchi per ottenere la luce delle Stelle».
Ci fu una breve pausa di silenzio.
Poi ruppe il silenzio Aton, seccato.
«Non avevate il diritto di farlo...»
Faro accusò il rimprovero.
«Sì, signore... ma Yimot ed io pensavamo che fosse pericoloso. Potevamo impazzire sul serio. E secondo Sheerin dovrebbe essere probabile. Il rischio era solo nostro. Be', se fossimo riusciti a superare la crisi di claustrofobia, avremmo dimostrato di poter superare anche l'avvenimento reale, ma non è riuscito...»
«Perché?»
Toccò a Yimot rispondere.
«Ci siamo chiusi dentro e abbiamo adattato gli occhi al buio completo. È terribile, l'Oscurità fa pensare che tetto e mura crollino addosso. Abbiamo superato comunque questa fase ma poi abbiamo girato l'interruttore. I tappi si sono abbassati e il soffitto ha cominciato a brillare...»
«Poi?»
«Niente. Assurdo, niente! C'era un tetto con quei buchi e sembrava solo quello che era. Abbiamo provato più volte ma niente, non ci ha fatto alcun effetto».
Il silenzio cadde. Tutti guardarono Sheerin, seduto, immobile.
Theremon parlò per primo.
«Sa cosa significa per la sua teoria, Sheerin?» sogghignò.
Sheerin lo bloccò con la mano.
«Un momento. Devo pensare». Schioccò le dita e rialzò la testa con uno sguardo sicuro. «Certo...»
Fu interrotto da un fragore improvviso. Beenay saltò su e si precipitò alle scale: «Che diavolo...»
Tutti quanti lo seguirono.
Sulla cupola Beenay guardò con orrore le lastre fotografiche sparpagliate e l'uomo in piedi. Balzò sull'intruso e gli strinse la gola. In breve questi fu sopraffatto e schiacciato da una dozzina di uomini inferociti, dopo una violenta colluttazione.
Aton arrivò per ultimo, affaticato.
«In piedi!»
L'uomo, con gli abiti strappati e pieno di lividi fu rimesso in piedi. Aveva una barbetta arricciata secondo la moda dei Cultisti.
Beenay lo teneva per il colletto e lo scrollava con violenza.
«Lurido porco, cos'hai in mente? Le lastre...»
Il Cultista rispose gelido: «Non volevo distruggerle, è stato un incidente».
Beenay ringhiò.
«Già, volevi distruggere le macchine fotografiche. Sei stato fortunato, sai, se avessi toccato la macchina, ti avremmo fatto a pezzi».
Aton intercettò il braccio di Beenay diretto contro l'uomo.
«Fermo! Lo lasci!»
Il tecnico esitò e abbassò il braccio malvolentieri. Aton andò dal Cultista.
«Lei è Latimer, vero?»
Il Cultista si inchinò rigidamente indicando il distintivo.
«Latimer 25, aiutante di Terza Classe di Sua Serenità Sor 5».
«Non ha accompagnato Sua Serenità la settimana scorsa quando è venuto a trovarmi?»
Latimer si inchinò ancora.
«Cosa vuole?»
«Niente che lei possa darmi spontaneamente».
«È stato inviato da Sor 5 vero?»
«Non intendo rispondere».
«Intende venirci a visitare ancora?»
«Non intendo rispondere».
Aton guardò l'orologio con disappunto.
«Be', cosa vuole da me il suo padrone? Io ho mantenuto fede ai patti».
Latimer sorrise ambiguamente.
Aton proseguì indignato: «Gli avevo chiesto dei dati che solo il Culto aveva. In cambio ho promesso di dimostrare la verità dei dogmi cultisti».
«Non c'è bisogno di dimostrazioni. Lo dimostra il "Libro delle Rivelazioni"». Il tono di Latimer non celava l'orgoglio.
«Per chi aderisce al Culto. Io avevo offerto prove scientifiche e ho mantenuto la promessa».
Latimer strinse gli occhi.
«Sì, certo, ma la sua spiegazione si basava sulle nostre fedi e perciò ne comprometteva la necessità. L'Oscurità e le Stelle sono diventati fenomeni naturali e questa è bestemmia».
«Allora la colpa non è mia, i fatti sono fatti e io non posso che constatarli».
«I suoi fatti sono frodi».
Aton batté un piede a terra.
«Come può dirlo?»
La risposta denunciava la fede cieca e assoluta.
«Io lo so».
Beenay sussurrò qualcosa al rettore che era arrossito. Aton lo zittì.
«Cosa dovremmo fare allora? Sor 5 crederà certo che noi mettiamo in pericolo le anime. Be', se può fargli piacere, non siamo riusciti a convincere nessuno».
«Anche il solo tentativo ha provocato danni e i suoi strumenti diabolici per ricavare dati sono sacrileghi! Noi obbediamo alle Stelle, mi spiace solo di non essere riuscito a distruggere i suoi strumenti diabolici».
«Be', non ci avrebbe ricavato molto», disse Aton, «abbiamo già messo al sicuro tutti i dati tranne le prove dirette che vogliamo tra poco. Ma comunque lei ha tentato un crimine».
E rivolto agli uomini: «Chiamate la polizia della Città di Saro».
Sheerin gemette, disgustato.
«Accidenti Aton ma cos'ha? Non abbiamo tempo!» avanzò. «Ci penso io!»
Aton guardò Sheerin.
«Lasci perdere i suoi giochetti idioti Sheerin. Mi sbrigo io come voglio! Lei qui è solo un estraneo!»
Sheerin torse la bocca in una smorfia.
«Perché dobbiamo chiamare la polizia? L'eclisse Beta inizierà tra qualche minuto. E poi questo ragazzo rimarrà tranquillo e non ci darà fastidio».
«Nemmeno per sogno», avvertì il Cultista, «potete fare quello che volete ma siate avvertiti che appena potrò farò quello che mi sono prefissato! Anzi... forse è meglio che chiami la polizia!»
Sheerin sorrise con simpatia.
«Tipo deciso eh? Be', le dirò, quell'uomo vicino alla finestra è un tipo robusto, sa menar le mani ed è un estraneo qui dentro. Appena inizia l'eclisse non la perderà di vista un attimo. E poi anch'io, forse sono troppo in carne per fare a pugni, ma posso aiutarlo».
«E allora?» il tono di Latimer si era raggelato.
«Ascolti», replicò Sheerin, «quando l'eclisse inizierà la porteremo in una stanza senza finestre e chiusa ermeticamente. Dove resterà per tutta la durata dell'eclisse».
«Va bene, ma non mi porterà fuori nessuno no?» mormorò Latimer. «Quando appariranno le Stelle tutti impazziranno, certo nessuno penserà più a me. Morirò soffocato o di fame! Dovevo aspettarmelo da gente come voi. Comunque non voglio discutere oltre!»
Gli occhi slavati di Aton guizzarono turbati.
«Sheerin, lei non vorrà sul serio...»
Lo psicologo gli fece brutalmente cenno di tacere. «Non credo che si debba arrivare a ciò; Latimer ha tentato di barare ma io non mi lascio gabbare!» sogghignò al Cultista. «Non posso credere che lei sia convinto che io la lascerò morire di fame! Se la chiudessi nella stanza lei non vedrebbe né l'Oscurità né le Stelle. E lei da buon Cultista sa che la sua immortalità animistica è legata alla visione delle Stelle. Io la giudico un uomo d'onore, se mi garantisce che non cercherà di rovinarci le apparecchiature, accetterò la sua parola».
Una vena pulsò più forte sulla tempia di Latimer. Dopo un attimo di riflessione proruppe: «Ha la mia parola, ma sarete dannati tutti quanti per quello che fate». E si girò verso lo sgabello vicino alla porta.
Sheerin ammiccò al giornalista.
«Theremon, gli stia vicino!! Theremon!»
Ma Theremon era immobilizzato, le labbra esangui.
«Là!»
Puntava un dito tremolante verso il cielo e la sua voce era incrinata.
Tutti gli occhi si puntarono al cielo e si raggelarono col respiro mozzato.
Beta era leggermente intaccato sul bordo.
La parte buia era infinitesimale ma per gli astanti significava il Destino.
Dopo un istante di silenzio assoluto, ci furono grida, confusione e panico, poi iniziò la febbre. Ognuno corse al proprio posto. Assolutamente privi di emozioni, erano solo degli scienziati al lavoro.
Sheerin proclamò: «Quindici minuti, è iniziata da quindici minuti. Un po' presto, ma l'approssimazione è ancora soddisfacente, vista l'incertezza dei dati». Si avvicinò a Theremon fissato ancora alla finestra e lo tirò dolcemente indietro.
«Aton è irato, gli stia alla larga! Si è perso il primo contatto per quel Latimer, stia attento!»
Theremon annuendo si sedette.
Sheerin lo guardava: «Ma... cosa fa? Trema!»
Theremon abbozzò un sorriso: «Il fatto è... che non mi sento bene, non mi sento bene».
Sheerin lo guardò con severità.
«È sicuro di resistere?»
«Sì», Theremon esplose indignato, «certo che sì, le dirò, fino ad ora non ci credevo, non ci credevo. Devo abituarmi all'idea, sì, devo abituarmici».
«Va bene», gli concesse Sheerin, «ha famiglia?»
Theremon fece cenno di no.
«Il Rifugio? Non ci pensi, ho una sorella a duemila miglia... non conosco l'indirizzo...»
«Lei ha tempo di scendere al Rifugio e c'è posto, io me ne sono venuto via. Sa potrebbe essere utile...»
Theremon lo guardò con aria stanca e esausta.
«Io non ho paura, sa? Anzi, io sono un giornalista e devo preparare un servizio, un servizio da prima pagina. E lo farò».
Lo psicologo si abbandonò a un sorriso luminoso.
«Già, orgoglio professionale!»
«Be', in un certo senso. E adesso darei un occhio della testa per un'altra bottiglia, anche solo la metà di quella che lei ha finito di vuotare poco fa. Se c'è uno che ha bisogno di bere, quello sono io».
Sheerin gli rifilò una gomitata.
«Sente? Lo sente?»
Il Cultista assolutamente estraneo a quanto lo circondava e succedeva nella stanza, cantilenava tra sé, guardando fuori dalla finestra con aria di selvaggio esaltazione.
«Che dice?» sussurrò il giornalista.
Sheerin rispose: «Cita il "Libro delle Rivelazioni", capitolo quinto, ascolti!»
La voce del Cultista cresceva man mano che aumentava in lui l'estasi.
«E in quei giorni il sole Beta rimase da solo in cielo, sempre più a lungo, e le rivoluzioni trascorrevano. Poi alla fine, restò per un tempo pari a mezza rivoluzione a scintillare piccolo e gelido su Lagash.
«E allora la gente si riunì nelle piazze e nelle strade, parlando di quel fatto e stupiti di quanto vedevano, prigionieri di una indicibile angoscia. Avevano la mente sconvolta e dalle loro bocche uscivano discorsi confusi. Le loro anime aspettavano la venuta delle Stelle.
«E nella città di Trigon, a mezzogiorno, Vendret 2 uscì fuori e si mostrò alla folla dicendo: "Ascoltate, peccatori! Voi avete disprezzato la rettitudine, adesso è l'ora del giudizio. Ora la Caverna si sta avvicinando per inghiottire Lagash e tutto ciò che esso contiene".